Psicodramma: uno specchio immaginale.
[…] ciascuno di noi — veda — si crede «uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello — diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto!
(Pirandello, Sei Personaggi in cerca di autore)
Psicodramma Analitico: lo spazio in cui le azioni diventano immagini.
Finalizzata allo sviluppo personale, la psicoterapia di gruppo con la metodologia dello Psicodramma Analitico è in grado di consentire all’individuo di esprimere le diverse dimensioni della sua vita psichica. All’interno del proprio cerchio, infatti, gli immaginari che ciascun membro del gruppo porta vengono invitati a danzare gli uni con gli altri, comunicando, mostrandosi e interagendo vicendevolmente, per portare in scena le varie sfaccettature della psiche individuale. Un invito cui ciascuno di loro risponderà a modo proprio, chi gridando, chi restando in silenzio, mandando messaggi solo di tanto in tanto. Qualcuno parlerà poco. Qualcun altro cercherà di monopolizzare l’attenzione. Altri ancora, infine, attrarranno e chiameranno in ballo ulteriori, nuovi personaggi. Comunque sia, alla fine, nella terapia di gruppo con la tecnica dello Psicodramma Analitico, l’azione diventerà immaginazione.
Psicodramma per assumere il punto di vista immaginale:
Questa metodologia, infatti, parte dal presupposto che, così come i corpi, anche le immagini si muovono, parlano, interagiscono. Il loro modo di farlo, tuttavia, è più sottile, più poetico e indiretto, di quanto non lo siano un gesto o un comportamento concreto. Per questo, affinché i loro messaggi possano essere compresi fino in fondo, è necessario adottare nei loro confronti un linguaggio adeguato per poter essere avvicinate. Un linguaggio, per l’appunto, che richiami il loro stesso essere immagini. Come affermava anche Shakespeare, infatti: siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
E lasciamo, allora, che siano i sogni a spiegarci come si muovono e come funzionano le immagini.
Sogni: teatri delle immagini.
Anzitutto, partiamo da un dato comune: nei sogni, noi agiamo. O, se proprio non agiamo, quanto meno assistiamo ad un accadimento. Ad un’azione che c’è, si verifica di fronte ai nostri occhi, forse sulla nostra stessa pelle. Eppure che, allo stesso tempo, non ha nulla di concretamente reale. Pensiamo ai sogni in cui ci sembra di cadere, a quelli in cui qualcuno c’insegue, quelli in cui abbiamo incidenti o siamo avvicinati da particolari tipi di animali. Al nostro risveglio, ad occhi aperti, qualunque cosa sia accaduta durante il sonno svanisce con questo e noi ci ritroviamo distesi sul nostro letto, sì: a volte sudati e con il cuore che batte a mille, ma al sicuro.
Comunque sia, qualsiasi cosa accada, nel sogno noi non possiamo fare a meno di partecipare.
Entrare nella drammatizzazione della psiche:
Come ben indica la psicologia archetipica, al soggetto, infatti, non è permesso di restare mero spettatore delle immagini. Esso è piuttosto costretto ad entrare nella drammatizzazione della psiche, divenendone un attore. E ciò perché, come c’insegna Carl Gustav Jung in Mysterium coniunctionis, le immagini si presentano già al soggetto come una drammatizzazione, per cui il soggetto partecipa ad esse come un loro personaggio e dialoga con esse. È così che il dramma diventa realtà psichica, una realtà simile a quella onirica, fatta di immagini, e in grado di lavorare sulla psiche stessa, strutturandola.
Certo, all’inizio, come afferma Hillman:
ciò che si rappresenta sul palcoscenico rimane ancora un processo di sfondo,
non tocca l’osservatore in alcun modo: e quanto meno lo tocca,
tanto minore sarà l’effetto catartico di questo teatro privato
(Hillman, Le storie che curano).
Eppure,
il pezzo che viene messo sulla scena non vuole essere solo guardato con imparzialità, vuole costringere alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo stesso dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà, via via che gli attori si succedono e che l’intreccio si complica, che…è l’inconscio che si rivolge a lui e fa sì che queste immagini di fantasia gli appaiano davanti. Si sente perciò costretto o viene incoraggiato a prendere parte alla recita
(cit. Le storie che curano).
Immag(in)azione:
Ma come avviene questo coinvolgimento? Come si (com)muove il soggetto a partecipare al moto stesso delle sue immagini interne?
A dirlo è semplice: basta insegnare al soggetto che egli, nel momento in cui penetra nel sogno, altri non è se non un’immagine tra immagini. Nient’altro che uno fra tanti e non uno su tanti. In altre parole al soggetto viene quindi richiesto di compiere uno sforzo di immaginazione che lo strappi ai vincoli che lo imprigionano e lo legano al mondo diurno e della veglia, costringendolo a partecipare all’immagine, così come un bambino partecipa a un gioco: in modo serio, generoso e concentrato.
Dobbiamo intervenire nel processo con la nostra reazione personale, come se noi stessi fossimo un personaggio della fantasia o, meglio ancora, come se il dramma che si svolge davanti ai nostri occhi fosse reale. Che si sviluppi proprio quella fantasia è infatti un dato della realtà psichica. La fantasia è reale come noi siamo reali in quanto creature psichiche. Se non si compie questa operazione di decisiva importanza, tutti i cambiamenti resteranno nel flusso d’immagini e noi rimarremo sempre gli stessi[1].
Portare alla luce gli immaginari:
E così, come in un gioco tutti i ruoli vengono considerati, confrontati e impersonati con importanza, allo stesso modo, nel gruppo di psicodramma, grazie alla tecnica junghiana del teatro delle immagini, ogni immaginario di ogni singolo partecipante diviene un personaggio con un suo fine, delle sue caratteristiche e un suo processo di sviluppo personale. E trova il suo posto nello spettacolo psichico offerto al temenos. Per cui il lavoro psicoterapeutico (di gruppo così come quello individuale) consisterà nel portare alla luce gli immaginari e nel confrontarli.
Ma a chi spetta, di preciso questo compito?
Psicodramma: animare e osservare l’anima del gruppo…
Lo psicodramma, come il gruppo con la tecnica Gestalt-Analitica, è caratterizzato da due figure analitiche che prendono il nome dal ruolo che impersonano: l’animatore e l’osservatore.
Come suggerisce il termine stesso, l’animatore è colui che conduce la dinamica di gruppo, che “anima” e vivifica gli immaginari emergenti. È lo psicoterapeuta che annuncia l’inizio e che accoglie ciò che emerge dal silenzio iniziale: sogni, storie, fantasie, sintomi, emozioni e vissuti, guidando la costruzione di un intreccio e creando, con il contributo di tutti i partecipanti, immagini, trame e storie sempre nuove, in virtù della sua abilità, come scrive Anzieu, di lasciarsi prendere dai fantasmi che circolano nel temenos e di farsi coinvolgere da loro, senza, però, rimanerne prigioniero.
L’animatore nello Psicodramma:
È l’animatore che accoglie, conosce e comunica, nominandoli, i fantasmi che si presentano via via nello spazio circolare. E colui che dà di conseguenza forma e contenimento alle immagini psichiche, permettendo loro di acquisire realtà psichica e divenire sostanza. Egli, in altre parole, aiuta a rappresentare il limite di demarcazione tra l’inespresso e l’espresso, tra il potenziale e l’attuale, tra l’immateriale e il materiale, facilitando il passaggio dal materiale psichico indifferenziato all’immagine individuata, dal caos all’ordine. In altre parole, egli rende visibili ai vari membri del gruppo le immagini proiettate nello spazio circolare del temenos, attivando in ciascuno di loro un forte senso di partecipazione.
Il senso di partecipazione allo svolgersi e al rendersi visibili delle immagini, attiva infatti non solo l’attenzione di chi le osserva, ma genera una forma di trasporto, un’emozione intensa che, riscaldandosi, come diceva Corbin, rende diafana la stessa forma acquisita, lasciando quindi trasparire lo sfondo divino di personaggi e potenze che ogni immagine apparente nel gruppo possiede. Si viene a compiere così una lettura in trasparenza di ciò che appare nell’immaginazione.
La diagnosi archetipica: vedere in trasparenza le immagini:
Alla luce di tutto ciò, parlare di diagnosi archetipica diviene, allora, un applicare l’elemento diagnostico, cioè il conoscere attraverso, a tutte le immagini che si presentano, collocandole di volta in volta l’immaginario occorrente nel suo panorama mitico e conoscendole attraverso questo stesso collocamento.
Ritornando la patologia al Dio,
noi riconosciamo la divinità della patologia e diamo al Dio quanto gli è dovuto[2].
Letta in questo senso, potremmo pertanto dire che la terapia archetipica è teofanica, cioè una terapia che, rendendo trasparente la forma, chiede al Dio che è celato dietro di essa di mostrarsi. Un procedimento che ha dello spettacolare e che, già di per sé si rivela diagnostico. Infatti, riconducendo l’immagine al dio, essa perde la sua fermezza, la sua staticità, e diventa dinamica, acquista movimento, direzione e senso. E se appare la direzione e appare il senso, ecco dunque tornare sulla scena anche lo scopo. Il fine ultimo dell’immagine stessa. E ciò renderà la diagnosi archetipica, una conoscenza attraverso il fine.
Verso cosa tendono le immagini?
Una visione di lavoro, questa scopistica e finalistica, che necessariamente cambia le prospettive d’intervento psicoterapeutico, poiché le arricchisce in pregnanza e profondità e conferisce loro spessore attraverso l’attribuzione di senso. Ciò implica che, attraverso la diagnosi archetipica non andremo, allora, a leggere un ricordo traumatico, ad esempio, per rintracciarvi la causa delle attuali problematiche del soggetto, ma andremo a chiederci verso che cosa tende quella specifica immagine. Quale la finalità potrebbe avere e quale potrebbe essere il suo processo individuativo.
Le immagini conferiscono potenza alla psiche:
Facciamo un esempio.
Qualcuno mi dice mi sento depresso. Io non so cosa voglia dire; è un termine vuoto, non ha nessun contenuto propriocettivo, nessuna immagine; e tuttavia è sovraccarico. La parola stessa è una formazione sintomatica, un compromesso con la depressione, che aiuta a reprimerla ammettendola soltanto in questa maniera vaga e astratta. In terapia mi piacerebbe che questa parola diventasse più precisa: come si sente il paziente? Vuoto, secco, triste, arido, bruciato, debole? Dove si sente depresso? Negli occhi? Vuole piangere, ha pianto? Nelle gambe? Sono pesanti? Il paziente non può né alzarsi né muoversi? Nel torace? Si sente ansioso, che sensazione prova? Dove, quando? È come essere legati o avvelenati? E che cosa succede negli intestini? Quali sono le fantasie sessuali? Qual è il colore dell’umore, la temperatura, il clima? – ci sono anche depressioni marziali, rabbiose e roventi[3].
Sono le immagini che conferiscono potenza alla psiche. Racchiudono idee, sentimenti, emozioni, comportamenti, descrivono una relazione, caratterizzano un’identità, sono universali, trans-storiche, profonde, generative, in poche parole sono necessarie.
Se lasciassimo, di fatti, che ogni patologia corrispondesse ad una mera etichetta nominalistica, nella quale la personalità è costretta a essere “una così e così e basta”, perderemo l’insieme di immagini che raccontano una storia, e perderemmo la ricchezza della dinamica di una trama complicata, affascinante, noiosa, triste, avvincente.
Diagnosi Teofanica:
Conducendoci verso il Dio, invece, la diagnosi archetipica offre una sorta di lente di ingrandimento. Ciò che vedremo allora, non sarà più una grande etichetta unitaria, ma un corpo ricco ed affascinante nella cui trama s’intrecciano varie immagini che, nella fase analitica della lisi (cioè dello scioglimento), saranno quindi prese, osservate, analizzate nelle loro caratteristiche più minute e particolari, scarnificate fino a rintracciarne l’essenza più profonda, la natura più specifica e puntuale.
Sarà il momento amplificatorio poi a restituire loro un rinnovato respiro, dando spazio e spezzando il filo che le imprigiona in un’unica limitata manifestazione fenomenologica, la quale se anche non necessariamente patologica e sofferente, risulta comunque essere quanto meno asfissiante e poco vitale, realizzata nel sintomo o nel segno, o più semplicemente nella forma che la scintilla divina ha assunto in quella data psiche e in quel dato momento.
Il Gioco nello Psicodramma Analitico:
Tutto questo è il lavoro che spetta all’animatore, il quale può anche decidere, scegliendolo tra quelli emersi, di facilitare l’espressione di un dato contenuto, attraverso l’uso di uno strumento che è l’elemento centrale e qualificante dello psicodramma[4]: il gioco, nel quale si realizza la necessità di passare dal discorso indiretto del racconto fatto e dell’immagine emersa, al discorso diretto del gesto teatrale. In tal caso, l’animatore prepara la scena dell’immagine da giocare e il paziente è invitato a recitarla come fosse una commedia. Si viene così a strutturare un luogo in cui la fantasia e le immagini interiori hanno la possibilità di esprimersi liberamente, esattamente come avviene nel gioco spontaneo dei bambini.
L’agito, sia corporeo che verbale, è nello psicodramma parte necessaria e integrante del metodo; è ciò che prepara e favorisce l’azione psichica e il cambiamento terapeutico[5].
Nel gioco l’azione terapeutica si svolge con un gruppo di partecipanti che prendono parte, insieme al soggetto protagonista della scena, alla drammatizzazione, ma è importante sottolineare sempre che tutti i partecipanti al gruppo possano intervenire nella dinamica attraverso il doppiaggio.
Strutturazione del gioco:
Nella prima parte del gioco l’animatore invita il protagonista a scegliere gli altri personaggi della storia e a mettere se stesso nella recita dell’Io; solo nella seconda parte il protagonista si troverà a recitare in un altro ruolo, proprio nei panni del personaggio più scomodo, quello che per l’Io è più difficile da vedere e accettare. Solo così potrà avvenire il necessario confronto con l’Altro, l’Altro fuori e l’Altro dentro di noi[6].
La mia esperienza in campo teatrale mi ha insegnato che l’attore e il personaggio fanno uso dello stesso corpo, ma esprimono due entità psichiche diverse la cui forza risiede nell’ingranamento delle loro intimità. È vero che l’attore influenza il carattere del personaggio che deve interpretare, ma anche il personaggio influenza lo stato d’animo del suo autore. Chi dei due subirà l’azione diventerà a sua volta promotore dell’azione. L’individuo in fase di rappresentazione vive il paradosso di essere se stesso in un altro: non è più solo se stesso e non è neppure solo personaggio[7].
Fine del gioco:
Tramite il gioco è possibile contattare quel Tu, proiezione di ciò che siamo e che non vorremmo essere.
Una catena di rappresentazioni di fantasia si sviluppa e assume gradualmente un carattere drammatico: il processo passivo diviene un’azione. Dapprima essa consiste di figure proiettate, e queste immagini vengono osservate come scene su un palcoscenico. In altre parole, sognate a occhi aperti. C’è, di solito, una marcata tendenza a godersi semplicemente questo spettacolo interiore, (…) ciò che si rappresenta sul palcoscenico rimane ancora un processo di sfondo; non tocca l’osservatore in alcun modo: e quanto meno lo tocca, tanto minore sarà l’effetto catartico di questo teatro privato. Il pezzo che viene messo in scena non vuole essere solo guardato con imparzialità, vuole costringere alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo stesso dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà, via via che gli attori si succedono e che l’intreccio si complica, che (…) è l’inconscio che si rivolge a lui e fa sì che queste immagini di fantasia gli appaiano davanti. Si sente perciò costretto, o viene incoraggiato dal suo analista, a prendere parte alla recita[8].
“Fare anima” nel gruppo: il ruolo dell’Osservatore.
Occupiamoci ora dell’altra figura analitica fondamentale dello psicodramma analitico: l’osservatore che risiede in un angolo, in disparte, e non interviene per tutta la durata della seduta, fino a quando, al termine, non sarà l’animatore stesso a lasciargli la parola e il compito di ricucire, in una nuova trama, ciò che è avvenuto nel gruppo.
E così, l’osservatore entra in campo e a mo’ di Pizia, la sacerdotessa del tempio di Delfi che non taceva, non diceva, ma accennava, evoca immagini psichiche e crea uno sfondo significante alla seduta che si è appena conclusa. Il suo lavoro consiste infatti nel continuare a fare del gruppo un fare anima, un fare poiesis: dando forma agli umori amorfi dell’anima, alle sue sulfuree passioni, ai suoi amari risentimenti, alle sue ribollenti frenesie, facendone delle personalità distinte è il principale lavoro dell’analisi terapeutica o fare anima. Esso, perciò, lavora nell’immaginazione, con l’immaginazione e per l’immaginazione. Porta alla luce una personalità e le dà forma rivelando e plasmando le personalità multiple dell’anima celate nella massa confusa primaria fatta di voci litigiose e richieste assillanti[9].
Nutrire l’anima di anima: l’amplificazione.
Tutto ciò avviene grazie alla tecnica dell’amplificazione, una tecnica particolare che consiste nell’ampliare il contenuto simbolico del materiale psichico emerso attraverso l’uso di paralleli mitici, storici e culturali. Come scrive Jung, infatti:
quando deve trattare con un archetipo, un analista farà bene a riflettere. Nel trattare con l’inconscio personale non si deve pensare troppo e nemmeno aggiungere qualcosa alle associazioni del paziente. È forse possibile aggiungere qualcosa alla personalità di un altro? […] L’altro ha una propria vita e una propria psiche, perché è una persona. Ma quando non è una persona, quando è anche me stesso, ha la mia stessa struttura psichica di fondo, io posso cominciare a pensare, ad associare per lui. Posso addirittura fornirgli il contesto necessario perché lui non lo avrà senz’altro, non sa da dove provenga il granchiosauro e non ha alcuna idea di cosa significhi, mentre io lo so e posso dargli il materiale di cui ha bisogno[10].
L’amplificazione si presta ad essere una nuova prospettiva nella lettura delle storie, la prospettiva più antica, più profonda e più vera. Una prospettiva che non limita e non chiude, capace di risuonare nella psiche dei partecipanti portando nuovi spunti di riflessione psicologica.
Facendo confluire il cosmico nel personale e liberando il personale nel cosmico,
il metodo diventa una re-ligio, un ri-collegare, un ri-memorare[11].
Dott.ssa Michela Bianconi e Dott.ssa Angela Paris
Bibliografia:
[1] Jung, C.G. (1955-56): Mysterium coniunctionis, in Opere vol. 14, Bollati Boringhieri, Torino, p. 528.
[2] Hillman, J. (1996): Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, p. 219.
[3] Idem.
[4] Croce, E. (1990): Il volo della farfalla, Borla, Roma, p. 46
[5] Gasseau M., Gasca G.: Lo psicodramma junghiano, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p.121.
[6] Corridore A.: Lo psicodramma come teatro di immagini, Quaderni di cultura junghiana, n. 2, 2013.
[7] Orioli W.: Far teatro per capirsi, IPOC, Milano, 2011, p. 25.
[8] Hillman, J.: Le storie che curano, op. cit., p. 49.
[9] Hillman, J.: Fuochi blu, op, cit., p. 133.
[10] Jung, C.G. (1935): Fondamenti della psicologia analitica, in Opere vol. 15, 1991, p. 101-102
[11] Hillman J. (1982): Animali del sogno, Raffaello Cortina, Milano, 1991, p.24.