La notte dei mostri…o dei Santi?
Ascoltateli. I figli della notte. Quale dolce musica emettono.
(Dracula, dal film “Dracula di Bram Stoker”, Francis Ford Coppola)
Zombie, vampiri, scheletri, fantasmi…la notte di Halloween è oggi più che mai simbolo della notte dei mostri. Eppure, nella sua etimologia, non compare nulla di spaventoso. Anzi. Il termine deriva, infatti, dalla forma contratta di All Hallows’ Eve, dove Hallow è la parola arcaica inglese che significa Santo. La vigilia di tutti i Santi.
L’origine di Halloween:
La festività ha origini nell’antica cultura dei Celti e, più precisamente, nello Samhain (pronuncia: [‘sɑːwɪn], dal gaelico samhuinn = fine dell’estate), durante il quale i pastori iniziavano i loro preparativi per l’inverno, sistemavano il raccolto e radunavano il bestiame, portandolo via dai pascoli estivi. Tutte azioni e tutti rituali che, tenendo conto anche di ciò che accadeva alla natura e al mondo esterno, con le foglie che iniziavano a cadere e il giorno che cedeva sempre più il passo alla notte, venivano accompagnati da sacrifici di animali. Ringraziamenti agli dèi.
Via il vecchio per far spazio al nuovo:
Era così, dunque, che si onorava la fine di un anno di produzione, di lavoro e di raccolto. Ed era così che ci si predisponeva al nuovo che ancora doveva sopraggiungere. Attraverso dei rituali che, come la stessa natura rimandava, richiamavano inevitabilmente al contatto con la morte, intesa qui come la fine di un ciclo che ne riattiva un altro.
O morte superba,
quale festa prepari nella tua casa eterna,
che, di colpo, hai abbattuto nel sangue
tanti principi?
(William Shakespeare, Amleto, atto V, scena II)
Eppure non siamo così avvezzi a descrivere la morte come un rinnovamento. E come una possibilità di apertura al cambiamento. La temiamo, piuttosto. E, temendola, tendiamo a privarla persino del proprio nome effettivo, diseredandola, perciò, di fatto, della propria legittima eredità.
Chi ha paura della morte?
Da non crederci? Pensiamo a come si sono originati i vampiri o i licantropi. O a come Goethe, nel 1782, descrive il famigerato Re degli Elfi in una delle sue opere più belle. Si tratta di leggende nate proprio per cercare di dare una spiegazione alla morte. Solo che noi, nel corso del tempo, abbiamo finito con l’attribuire anche a queste figure terrorifiche delle valenze estranee. Impoverendo, di fatto, il significato ancestrale che si cela dietro i loro denti o i loro artigli (la morte come trasformazione) e trasformandoli in creature affascinanti e più decisamente “abbordabili” psicologicamente. Prendiamo, come esempio, l’evoluzione dell’immagine del vampiro nel mondo del cinema. Da Nosferatu, nell’omonimo film del 1922, al dandy che ha attraversato gli oceani del tempo per amore nel Dracula di Bram Stocker di settant’anni dopo. Fino al frivolo Edward Cullen di Twilight (2008).
Cos’è accaduto alla profonda alterità del mostro (dal latino monstrum = ciò che non è umano)?
Mostri umani e umani mostruosi:
Per Halloween,
il Bambino Ostrica decise di travestirsi da umano.
(Tim Burton)
Ebbene sì: li abbiamo umanizzati. Li abbiamo resi accessibili. Li abbiamo privati della loro feroce freddezza e della loro cruda essenza. Per quale scopo, però?
Come ben scrive Sir Arthur Conan Doyle, infatti: dove non c’è immaginazione non c’è orrore. Il che significa che i mostri esistono, esistono davvero. Ma in quanto partoriti dalla nostra psiche: fantasie abnormi (mostruose, per l’appunto) che vengono utilizzate dalla nostra anima per comunicare qualcosa. E per inviarci un qualche tipo di messaggio su se stessa.
Mostri messaggeri dell’anima:
Lo spiega bene James Hillman nel testo Re-visione della Psicologia (1975), quando, parlando di patologizzazione, introduce alla capacità della nostra psiche di produrre proprio delle fantasie mostruose. La fantasia può utilizzare ogni sorta di contenuto, egli scrive, divino o morboso [1], per parlare di se stessa e delle proprie profondità. Consideriamo, dunque, i mostri che popolano le nostre paure più ancestrali come una maniera di raccontare, come un modo in cui la psiche parla a se stessa [2]. Uno stile di linguaggio.
Ciò che si attiva, però, ogni volta che tale linguaggio viene utilizzato, è la sensazione di forze oscure nel profondo (rinvianti alla morte in quanto sfondo immaginale della psiche stessa), che attirano la nostra attenzione verso aspetti sofferenti di noi. Aspetti però a cui noi, spesso, purtroppo tendiamo ad attribuire caratteristiche morali, finendo così col confondere ciò che soffre con qualcosa di difettoso o di sbagliato. Qualcosa che ci spaventa, ci fa sentire vulnerabili, in pericolo, fino al punto dal farci sentire in colpa. Ma vediamo come accade questo passaggio…
In fuga dai mostri:
Proprio perché la fantasia…è così concretamente vivida e noi la sentiamo così vitalmente, la nostra risposta è un’azione concreta [3]. Di fronte alle nostre fantasie mostruose tendiamo, infatti, a fuggire, a non voler vedere. Ricorriamo a ogni mezzo per sminuire o depotenziare l’immagine mostruosa e tutto ciò che a essa richiama. Un po’ come accade a Lord Voldemort in Harry Potter, diventando “Tu-sai-chi”. O a Sauron, ne Il Signore degli Anelli. Ho davvero un lato così oscuro e terrificante dentro di me? C’è davvero un mostro nel profondo della mia anima?
Mostri, oscuri messaggeri:
La risposta a questa domanda è pura e semplice: NO.
Ogni fantasia distorta, infatti, per quanto spaventosa possa apparire (e per quanto possa richiamare alla morte), in realtà tocca il nostro senso della vita. Essa guasta e rende vivi nello stesso tempo, è una stimolazione mediante distorsione [4]. È così che ciò che tendiamo a vedere o a percepire in modo distorto o deformato, altro non è che una componente della nostra psiche, ignorata per troppo tempo.
E, per questo, sofferente.
Tale parte, non possedendo altra modalità per comunicare con noi, proprio come chi si ritrova a parlare con un sordo, tenta, dunque, di mostrarsi e farsi ascoltare, “alzando la voce”. Distorcendosi, cioè, ingigantendosi e rendendosi via via sempre più mostruosa, solo con l’unico scopo di attirare la nostra attenzione. Di smuovere le nostre energie verso se stessa. L’afflizione riflette un pathos, spiega ancora Hillman, un esser mossi o un movimento, che ha luogo in quell’istante nella psiche [5].
Mostri moralizzati:
Il problema, però, è che questo pathos (dal greco πάϑος = sofferenza) non sempre viene accolto. Ma, anzi, molto più frequentemente, instaura in noi quasi una sensazione di vergogna. Iniziamo a sentirci sbagliati, a sentire ciò che si muove dentro di noi come guasto. E ce ne sentiamo in colpa, giudicandolo e giudicandoci, di conseguenza. Finendo, così, difensivamente, con l’ostacolare ancora di più, se non proprio con il bloccare, l’espressione di quella parte sofferente che è alla base della distorsione.
Restando, di fatto, con il mostro che appare, senza considerare il contenuto interno che vi si nasconde dietro. Esattamente come accade con il termine Halloween, quando lo consideriamo come la Notte dei Mostri, piuttosto che come la Viglia dei Santi. Cioè come la fase di transito che precede l’arrivo di qualcosa di divino.
Il sottile confine tra il bello e il tremendo:
Del resto, è un’esperienza piuttosto comune, descritta variamente anche da molti poeti. Tutto ciò che ci appare oltre umano, forte e intenso (mostruoso, per l’appunto), s’instaura, dinnanzi ai nostri occhi e, soprattutto, alle nostre percezioni, come uno stato limite tra l’affascinante e il terrificante. Finendo, di fatto, col far sembrare fonte d’orrore anche ciò che, inizialmente, non avrebbe dovuto né potuto esserlo.
Gli Angeli sono tutti tremendi. Eppure, ahimè,
io invoco voi, uccelli d’anima che quasi fate morire,
pur sapendovi. Dove sono i giorni di Tobia,
quando uno dei più radiosi si stette all’umile porta di casa
un po’ travestito da viaggio e, così, già non più pauroso,
(giovane al giovane che guardava fuori curioso).
Si movesse l’Arcangelo, il pericoloso, si movesse da dietro le stelle
di un passo soltanto, giù verso di noi: con la violenza
del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio cuore. Chi siete voi?
(Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, II, 1-9).
Che cosa fare, allora?
Nella pratica clinica, non è così infrequente che un paziente affermi di temere l’incontro con se stesso, spesso credendo, proprio in virtù di fantasie deformate e patologizzate, di avere chissà quale mostruosità nascosta dentro. Gli atteggiamenti che potrebbe instaurare, allora, proprio per cercare di evitare di guardare in questo specchio, potrebbero essere rigidi, tendenti a preservare un certo status quo che, per quanto sofferente (giacché nulla nella psiche può mai esser dato definitivamente) e ristagnante, va comunque a costituire una fonte di sicurezza (la sicurezza del conosciuto). Una fonte, però, che impedisce il cambiamento.
Il contributo della psicologia archetipica:
Come scrive Hillman, nella prospettiva archetipica, possiamo imparare a liberarci da questo stile di colpa, che ci mantiene incastrati in un certo modo di vedere noi stessi e il mondo, cominciando a vederlo in trasparenza come un’attività difensiva che impedisce l’emergere delle fantasie archetipiche. Perché dal punto di vista archetipico, ciò che importa non è tanto il fatto di sentirci colpevoli, quanto piuttosto verso chi ci sentiamo colpevoli: a quale persona della psiche appartiene la mia afflizione, entro quale mito si colloca, e rivela forse un obbligo? Quali figure, e in quali complessi, avanzano in quel momento le loro rivendicazioni? [6] Considerata da questa prospettiva, la colpa portata dalla fantasia mostruosamente deformata assume una radicale importanza. Essa, infatti, ci permette di distaccarci dall’idea del mostro in quanto fonte di terrore, e ci consente di considerarlo come un messaggero (l’angelo della psiche). Predisponendoci, di conseguenza, all’ascolto di quella parte psichica troppo a lungo ignorata. E alla sua accoglienza.
Rompendo, di fatto, il circolo vizioso in cui ci sentivamo incastrati (mostro-paura-difesa-senso di colpa), e preparandoci al cambiamento, seguendo modalità molto simili a quelle illustrate per lo Samhain. Portandoci cioè a ritirarci in noi stessi per far sì che un ciclo della nostra vita finisca. E il nuovo inizi.
Ascoltateli. I Figli della notte. Quale dolce musica emettono.
Ascoltiamoli, allora, i figli della notte, come invita a fare Dracula nel film del 1992 di Francis Ford Coppola. Ascoltiamo le loro voci, anche se ci spaventano enormemente. Accogliamo la loro musica e cerchiamo di farla nostra. Sì che dentro il terrore che emanano, c’è nascosta una vita che, forse, non avremmo mai pensato di possedere.
[1] James Hillman, 1975, Re-visione della Psicologia, Milano, Adelphi, 1983. Quarta edizione, 2008, pag. 148.
[2] Ibidem, pag. 154.
[3] Ibidem, pag. 156.
[4] Idem.
[5] Idem.
[6] Ibidem, pag. 155.
Dott.ssa Michela Bianconi, Dott.ssa Angela Paris