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EPIFANIA…Una lettura etimologica.

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Epifania…

Ogni nuova conoscenza accende una scintilla, e la scintilla accende un fuoco;
e la luce delle fiamme rivela entità ignote che si muovono nell’oscurità.
(Marion Zimmer Bradley)

Esistono almeno due modi di intendere l’epifania. Quello più ortodosso, che vede in questa festa la celebrazione del battesimo di Cristo nel Giordano. E quello che potremmo definire più “occidentale“, che invece richiama all’adorazione dei Re Magi, giunti da regni remoti per donare oro, incenso e mirra al Bambino appena nato. Due storie apparentemente diverse, ma che pure celano al proprio interno esattamente lo stesso meccanismo: il riconoscimento della Divinità che si manifesta agli uomini. Del resto lo stesso termine “epifania” indica proprio questo: il mostrarsi di un dio (o di una dea) di fronte ai comuni mortali.

Ma indaghiamo meglio questa etimologia.

Origini etilogiche della parola “epifania”:

La parola EPIFANIA, in greco ἐπιϕάνεια, deriva dall’unione di due parti:

  • ἐπι: sopra, su, contro, di faccia;
  • e Φάνης, ϕάνεια, a cui radice corrisponde a quella del verbo phainō, che significa, per l’appunto: “rendere manifesto”.

La prima, ἐπι, a sua volta, deriva dall’accad. appu, e dal sir. appi (= faccia). Si tratta di un termine che richiama prevalentemente al tedesco Gesicht. Una parola che designa la realtà, un punto di vista, una possibilità di vedere o di aver visto (il ge– infatti, è un prefisso spesso utilizzato nei participi passati). Strettamente imparentata con il termine inglese sight e con lo scozzese sicht: qualcosa che è visibile, questa parte della parola “epifania” sembra allora rinforzarsi ed esplicarsi nella seconda. 

Come si potrebbe, infatti, vedere ἐπι…senza phos, cioè senza luce?

Vedere attraverso la luce, è sempre un’epifania?

Sarà capitato a ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, di camminare al buio, magari in un luogo non di nostra conoscenza. Senza luce, procediamo con le mani distese di fronte al corpo, tastando l’aria alla ricerca di indicazioni che ci facciano intuire cosa ci circonda. O che ci proteggano da eventuali ostacoli o pericoli. E ci sentiamo inquieti, persi. Come se non sapessimo orientarci.

Esattamente come accade a Jake Sully, protagonista del celebre film Avatar, di James Cameron (2009), nel momento in cui si trova solo nel fitto della foresta di Pandora, il pianeta alieno sul quale è in missione. La scena è piuttosto semplice. Spaventato dal buio e dai rumori che ha intorno, temendo di finire sul menù di un qualche sconosciuto animale, Jake cerca prima di tutto di procurarsi una luce con cui vedere. Una torcia, nella notte, che possa aiutarlo nella propria fuga o, eventualmente, nel nascondersi. E sperando, al contempo, di spaventare i predtori. Si rifugia nel phos, in quanto luce come mezzo per vedere. Un’azione, però, che più che proteggerlo sembra sortire l’effetto inverso. Perché ogni torcia artificiale (potete farne esperienza spegnendo la luce e accendendo una candela o una pila elettrica) pur illuminando bene il cono verso il quale s’indirizza, sembra rendere tutto il resto ancora più oscuro e indefinito. Un difetto visivo tipico dei nostri occhi.

Phos, soffermarsi alla visione esterna o scendere in profondità?

Gli animali attaccano Jake, ignorando il flebile fuoco che egli usa per difendersi. E l’eroe sembra quasi spacciato, finché, dal buio, non emerge un altro personaggio. Neytiri, la figlia del capo Na’vi (clicca qui per vedere la scena). La donna non solo lo salva, uccidendo per lui gli aggressori, ma compie per lui un’altra azione estremamente significativa. Con un gesto secco, infatti, e anche piuttosto stizzita, priva infatti Jake della torcia. Gettandola nell’acqua.

La scelta registica di Cameron, a questo punto, rende molto bene il concetto di luce, così come stiamo cercando di illustrarlo noi a partire dal termine epifania. Giacché, se nella scena descritta, l’ambientazione, dominata dalla luce aranciata della torcia, resta comunque estremamente cupa, di punto in bianco, grazie allo spegnimento del fuoco artificiale, lo spettatore, così come il protagonista, possono accedere a qualcosa di inaspettato. La foresta, così spaventosa, muta e sprigiona colori e bioluminescenze indescrivibili.

E ciascuno di noi, come Jake, finalmente inizia a vedere, oltre le apparenze. E oltre ciò che crediamo di conoscere già. 

Phos, accesso alla verità per coloro che guardano oltre:

E’ questo, dunque, il significato reale del termine greco phos. Non inteso solo come mezzo per vedere tout court, ma anche e soprattutto come conseguenza: la luce che emana dalla verità raggiunta attraverso l’azione stessa del vedere oltre ciò che si sa (e si vede) già. La torcia di Jake Sully che rende più oscura e inaccessibile la bellissima foresta di Pandora. E un vedere, però, che, come sottolinea la stessa Neytiri nel film, non può essere insegnato.

Può essere solo scoperto.

Verum, infatti, verità, da verus, richiama sia all’antico alto tedesco wãr, corrispondente sì all’accadico bârum (= essere certo, provato saldamente), ma anche a bãrûm (= il veggente) e da barûm (= osservare auspici). Quando si dice, l’importanza degli accenti… Sia al greco Aletheia (ἀλήθεια). Una parola tradotta in modi diversi come: dischiudimento, svelamento, rivelazione o verità. E il cui significato letterale indica proprio lo stato del non essere nascosto; lo stato dell’essere evidente, implicando sincerità, fattualità o realtà.

E non è questo ciò che accade anche nella tradizione cristiana?

L’adorazione dei Magi e la manifestazione della divinità:

Tramite l’Epifania, infatti, il cristianesimo celebra il Manifestarsi della divinità (Dio fatto uomo) come accessibile, in principio, solo ai Magi, da mgn, ebraico magan, miggen, aramaico maggan, coloro che portano doni, ma anche da mag/mas: in più. Coloro che hanno conoscenze aggiuntive. Gli unici che sanno guardare oltre le apparenze.

 La divnitià, di fatti, come ben testimonia qualunque mitologia o religione, non si manifesta mai per ciò che realmente è. Ma si manifesta sempre per mezzo di un tramite: un corpo (o forse meglio dire: una forma) che ne contenga la potenza e allo stesso tempo la renda approcciabile, visibile, in grado di poter essere confrontata all’interno di una relazione.

Epifania:

Epifanico quindi è il dio che ac-cade: che scende cioè (cade) dalle Alte Sfere in cui risiede e si fa corpo. Uno spirito che si incarna e che agisce e smuove: apportando un cambiamento in chi è chiamato ad osservarlo e a riceverlo.

Partiamo da questa considerazione e proviamo a integrarla con quanto affermava James Hillman sugli Dèi, ovvero che:

Dio è uno stile di riflessione.
Un Dio è una maniera di esistenza, un atteggiamento verso l’esistenza e un insieme di idee.

Potremmo, allora, facilmente comprendere come la divinità in generale possa rappresentare uno dei modi che la nostra anima ha ideato, nel corso della nostra evoluzione, per fornire una spiegazione sul funzionamento del mondo e dell’uomo stesso. Pensiamo a Zeus come dio dei fulmini, o a Marte come dio della rabbia e dell’aggressività. Un aspetto, dunque, della nostra psiche che ci delinea, di conseguenza, necessariamente come dotati di una o più scintille divine.

Fatti a immagine e somiglianza di Dio:

Siamo fatti, insomma, a immagine e somiglianza di Dio, come dice la Bibbia. E siamo fatti a immagine e somiglianza degli antichi dèi nel senso che, osservando ciascuno di loro e dei loro miti, possiamo ritrovare parti di noi. Quelle parti che ci rendono proprio più prettamente uomini e donne e che chiedono solo di essere ricordate, scoperte e omaggiate, se non proprio con oro, argento e mirra, almeno con un po’ di attenzione e di coscienza. 

Buona Epifania a tutti, allora, e buona scoperta di ciò che siamo realmente, dentro di noi.

Dott.ssa Michela Bianconi e Dott.ssa Angela Paris.

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