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Allattamento e nutrimento della Grande Madre

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Allattamento e nutrimento della Grande Madre. Introduzione:

L’idea di questo articolo sull’allattamento e nutrimento della Grande Madre è nata alla 4.00 di notte, da un insopportabile dolore al seno e da uno strumento meccanico che prende l’assurdo nome di “tiralatte”. Il migliore (o peggiore?) amico della mamma “work in progress”: la mamma neonata. Devo ammetterlo: nasce anche da una crisi emotiva profonda. Sì, perché persino gli psicologi e le psicologhe, ogni tanto, piangono, si disperano, si fanno prendere dall’ansia e dall’angoscia…esattamente come tutti gli altri! Del resto, per quanto forniti di tutti i possibili strumenti per affrontarli, anche noi siamo esseri umani e anche noi ci facciamo muovere dai nostri Dèi interiori (i nostri immaginari psichici). E allora ecco che questo articolo diventa il racconto di uno di questi episodi. E la sua lettura…“a mente fredda”.

Allattamento e nutrimento della Grande Madre. Latte o non latte…?

Capita spesso, quando si diventa mamma per la prima volta (ma forse anche nelle successive) di sentir raccontare o di sperimentare problemi con l’allattamento al seno. Perché non c’è stata la famosa “montata lattea”. Perché il bimbo è pigro o è piccolo (magari è nato prematuro). O si ciuccia la lingua. O si è già abituato alla tettarella del biberon dato in ospedale come sostegno alla crescita: la famosissima “aggiuntina” (altro termine tipico delle mamme “work in progress”).
Le esperienze, insomma, sono le più disparate. Eppure nella maggior parte di esse, si riscontra, spesso e volentieri, la medesima conseguenza: l’attivazione di un vago e pervasivo senso di colpa materno e la ricerca spasmodica di una soluzione. Sì, perché, bene o male, tutte, prima o poi nel corso della gravidanza, siamo state adeguatamente redarguite su quanto allattare sia la cosa più bella del mondo. E tutte, primipare o meno, una volta partorito, ci sentiamo sempre ripetere le stesse domande: “lo/la allatti?”; “si attacca al seno?”, con conseguente sguardo stralunato quando la risposta fornita è un imbarazzato no. Come se non riuscire ad allattare adeguatamente sia un problema insormontabile o ti renda una “madre snaturata”. Se a ciò, poi, associamo anche pregiudizi, autocritiche e sbalzi ormonali (del tutto normali in questo periodo) ecco che facciamo bingo. E ciò che rischiamo di vincere è tutt’altro che piacevole…

L’allattamento al seno:

Sia chiaro, quello che dicono le nonne e tutte le altre mamme non è falso: allattare al seno è davvero l’esperienza più bella. Perché si scatenano emozioni di comprensione (laddove per comprensione intendiamo il significato etimologico della parola. Da cum + prendere: prendere con). E di unione eguagliabili solo a quelle dei calcetti in gravidanza. Il legame che si viene a creare è intenso, complice. Per non parlare poi dello scambio di sguardi e del modo profondo con cui il bambino ti osserva, come se fossi l’essere più potente del (suo) mondo.
Inoltre, il latte materno, come si può leggere in un bell’opuscolo distribuito dal Ministero della Salute, è un alimento naturale per il tuo bambino…lo nutre in modo completo e lo protegge da molte malattie e infezioni (grazie anche al passaggio di anticorpi). Per di più, esso:

(…) è sempre pronto, a…”millimetro zero”, alla giusta temperatura e varia adattandosi per rispondere ai bisogni del tuo bambino.
Non c’è bisogno di altri alimenti o bevande fino a sei mesi compiuti.
L’allattamento aiuta il piccolo a crescere e svilupparsi in modo fisiologico e mantiene il suo valore nel tempo [1].

Allattamento e nutrimento della Grande Madre. Benefici dell’allattamento al seno:

Ci sono poi anche altri benefici, niente affatto trascurabili come:

  • il favorire uno sviluppo fisiologico della bocca.
  • Il ridurre il rischio di infezioni respiratorie e urinarie, diarrea, otiti.
  • Il ridurre il rischio di allergie e asma.
  • Il migliorare lo sviluppo psicomotorio, del cervello, degli occhi e dell’intestino.
  • Il ridurre il rischio di alcuni tumori del bambino.
  • E il ridurre il rischio di diabete, obesità, leucemie, malattie cardiovascolari e sindrome della morte in culla (SIDS).

Tutto estremamente prezioso e fondamentale. Ma quali sono i risvolti psicologici di tutto ciò? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo anzitutto fare riferimento ai presupposti base della Psicologia Archetipica, a partire dal suo nome.

Il concetto di archetipo nella filosofia:

Si pensa che la parola Archetipo sia stata pronunciata per la prima volta dal filosofo Anassimandro che utilizzò proprio il termine Arché per indicare l’unità da cui tutte le cose provengono ed in cui tutte ritornano. Tale concetto fu poi riproposto da Platone per indicare un modello originale e ideale delle cose sensibili. Una sorta di matrice iniziale su cui poi il mondo concreto si struttura. E alla quale è subordinato in quanto partecipazione (méthexis) o imitazione (mímesis). Pensiamo, ad esempio, a una rosa. Può essere bocciolo oppure ben aperta. Può essere rossa, bianca o gialla. Può appassire o rovinarsi. Eppure resta sempre, invariabilmente, una rosa.
Tale visione consente un’importante differenziazione a livello di pensiero. Si viene, infatti, a creare una spaccatura tra quello che è il sentito (attraverso i cinque sensi) e quello che è il concepito, il pensiero originale. Tra manifestazione e concetto. Ciò che più tardi Martin Heiddeger definì come Ente ed Essere. I quali, tuttavia, appaiono in continuità l’uno con l’altro.

Essere ed Ente:

Come spiega Galimberti, infatti:

Essere ed ente sono in rapporto di identità e differenza…dire che l’essere è identico all’ente significa affermare che l’essere è sempre l’essere dell’ente, che non vi è altro essere all’infuori di quello che si trova “presso l’ente”, per cui l’ente è pres-ente. L’essere è identico all’ente perché è la sua presenza. Il perdurare di questa presenza è il perdurare dell’essere nell’ente, il suo sottrarsi è il non-esser più dell’ente: è il ni-ente. Sullo sfondo di questa identità, per cui non esiste alcun essere in sé a prescindere dall’è dell’ente, a prescindere cioè dal suo accadimento originario, dire che l’essere è differente dall’ente significa negare che l’essere sia l’ente, perché, se così fosse, l’ente non potrebbe nemmeno accadere nell’essere perché sarebbe essere…
L’essere dispone dell’accadimento dell’ente, della sua sottrazione al niente, mentre l’ente non dispone di sé perché, se non fosse per l’essere che lo fa essere, per sé sarebbe niente [2].

La visione hillmaniana:

Siamo di fronte a letture che, dal punto di vista della psicologia archetipica, potremmo con facilità rimandare alle seguenti parole di James Hillman, suo fondatore.

In principio è l’immagine. Prima viene l’immagine e poi la percezione; prima la fantasia e poi la realtà…
L’uomo è in primo luogo un artefice di immagini e la nostra sostanza psichica è formata da immagini;
il nostro essere è un essere immaginale, un’esistenza nell’immaginazione.
Siamo davvero fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni [3]
.

…c’è un’immagine più profonda dell’immagine visibile [4]

Hillman considera, infatti, le immagini come i dati basilari della vita psichica, aventi origine autonoma, ricchi di inventiva, spontanei, compiuti in se stessi e organizzati in configurazioni archetipiche. E le legge, allo stesso tempo, sia come le materie prime che come i prodotti finiti della psiche. Il modo privilegiato d’accesso alla conoscenza dell’anima [5], intendendo per “anima”, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, una visuale sulle cose.

Il primato dell’immagine:

Ciò che si viene a configurare è, dunque, l’idea di una psiche complessa e arzigogolata, strutturata secondo modalità immaginative. E approcciabile proprio attraverso l’immaginazione (cioè la capacità di creare e mettere in azione le immagini). Un aspetto questo che, ben saputo utilizzare, ci permette non solo di vedere e relazionarci con i più disparati aspetti psichici, conferendo loro una consistenza propria e autonoma come se fossero personaggi in una grande città. Ma anche di non abbandonare mai la psiche per ricercare principi esplicativi esterni. Facendoci, infine, entrare nell’ordine delle idee che le parti che ci compongono sono sia nostre che non nostre. Sia personali che…universali. Comuni a tutti. Chi di noi, infatti, può dire di non sapere cosa sia una rosa? O che cosa significhi “rotondo”? O chi siano una mamma o un papà? 

Immagini interne:

Possiamo fare esperienza di questi aspetti sotto forma di determinate manifestazioni. Ad esempio, io posso conoscere la rotondità perché ho fatto esperienza di un pallone da calcio. Ma se vedo un mappamondo ne riconosco lo stesso Essere di partenza. Allo stesso modo: se non ho mai fatto esperienza di un padre o di una madre, o ne ho fatta una negativa, so comunque riconoscerli e so descriverli. Perché le immagini, gli archetipi, sono, a prescindere, dentro di noi. E sussistono e ci guidano, anche al di là delle nostre esperienze.

Il concetto di archetipo:

L’archetipo è il modello dell’originale, un complesso appartenente all’inconscio collettivo, che giunge a coscienza attraverso una serie di immagini che possono presentarsi sotto forma di luce o di ombra. Di spazio pieno e spazio vuoto. Suono o silenzio. La maggior parte di queste immagini sono fugaci e incomprensibili a una prima percezione, la loro comprensione, infatti, avviene solo a posteriori, attraverso l’osservazione dell’esperienza.
Gli archetipi ruotano intorno a se stessi, cambiando i propri toni come in una iridescenza di colori. E si plasmano nella storia dell’umanità. Dalle religioni, all’arte, fino alla cultura intera.

Psicologia archetipica e mitologia:

Ecco perché è difficile parlare di psicologia archetipica senza parlare, ad esempio, di mitologia.

La mitologia è un insieme di favole, di invenzioni che chiariscono cose di cui non ci sarebbe bisogno di parlare…
La mitologia conserva immagini primordiali mediante favole
[6].

Nei suoi racconti, strutturati intorno al fuoco, l’uomo ha proiettato i suoi più inspiegabili contenuti interni, creando figure che potessero incarnare istinti, comportamenti e realtà difficilmente identificabili a priori. O spiegabili. Esattamente come fa un bambino

I bambini dicono: “Raccontami una favola”, però questa no, un’altra. Raccontami un mito che mi riguarda, il mio mito.
Raccontami di quello che uscì dal terreno perché so che ha a che vedere con il mio terreno e con la mia venuta.
Begründen [7]. Non dirmi perché, dimmi da dove. Non parlarmi di
aitía, di ethios, di cause: questo interessa i medici.
Arché! Arché! Ciò che genera, l’originale.

Apeiron e anima:

Siamo spinti da una costante ricerca di noi stessi e di ciò che, dall’origine, ci ha creati così come siamo. Ciò che, differenziandolo dal Theos (il dio perfetto, creatore di tutte le cose) potremmo, piuttosto, rimandare al concetto di Apeiron: il fondamentale, l’illimitato. Ciò che attribuisce significato e del cui principio e fine sono fatte tutte le cose.

Essere mitologo, essere psicologo,
è addentrarsi in ciò che
i greci chiamarono Apeiron [8].

Si tratta di un passaggio che crea una forma di continuità tra la ricerca di sé e l’arte. L’arte di immagini e suoni, di ritmo, di silenzio e di armonia. La poiesis così come la intendeva Jung quando scriveva:

Ma che cosa può “creare” un uomo se non gli è toccato di essere un poeta?…
se non hai proprio nulla da creare, allora forse crei te stesso
.

E la così detta “base poetica della psiche” di cui parla largamente James Hillman.

La vera psicologia deve toccare l’Apeiron
e il vero psicologo deve arrivare al musicista, al poeta, al mitologo e al terapeuta
[9].

Allattamento e nutrimento della Grande Madre. Apeiron e Grande Madre:

Questa costante ricerca dell’origine, si ricollega inevitabilmente col parlare di origine letteralistica. E di origine della vita. Aspetto che ci riconduce nell’immediato all’essenza base di questo articolo. In fondo, da dove veniamo, come siamo nati…se non da una madre?
Ecco allora che Madre diventa non solo espressione di un femminile concreto che concepisce, trasforma e partorisce un bambino in carne e ossa. Ma essa è anche espressione della capacità creativa della psiche. Se non della psiche stessa. Quella da cui, secondo Neumann, non senza fatica, l’Io cosciente inizia il proprio percorso di differenziazione e sviluppo [10].

Allattamento e nutrimento della Grande Madre.
Grande Madre e sviluppo della coscienza:

Il mito della maternità, infatti, è essenzialmente un mito di separazione e reincontro. È il mito di Demetra e Persefone. O di Demetra e di Kore [11].

L’identità, l’identico, non fa coscienza. Solo la separazione, l’allontanamento, il confronto doloroso,
in opposizione, produce coscienza e comprensione [12].

Il punto di partenza è quello della più totale simbiosi, all’interno della quale i confini tra madre e figlio (e tra psiche e coscienza) non sono ancora strutturati. Questo legame, che rende la mamma pressoché onnipotente agli occhi del bambino, è oggettivamente vitale per il piccolo, perché consente alla donna di percepire in anticipo tutti i suoi bisogni e comprendere a fondo tutte le sue necessità. Dalla fame, al desiderio di essere cambiato. Al freddo o al caldo. Fino all’esigenza di coccole.

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Simbiosi materna e neuroscienze:

Tale fase è così importante da reggersi su ferree basi neurobiologiche, oltre che psicologiche. Fondamentali, sono pertanto ormoni come la prolattina, gli oppioidi, la dopamina, il GABA e la serotonina (il così detto “ormone della felicità”). Ma soprattutto l’ossitocina, della quale molte donne avranno sicuramente sentito parlare in caso di parto indotto. Si tratta di un ormone prosociale che sovrintende a una serie di funzioni implicate con la trasmissione dei geni e la conservazione della specie quali l’accoppiamento, la nascita, l’accudimento della prole, il legame parentale e il legame tra pari. Essa è secreta in seguito a generici stimoli cutanei non dolorosi, quali ad esempio carezze, massaggi, applicazione di calore sulla pelle, che si producono per il contatto intimo con altri esseri viventi. Ma anche in seguito a stimoli cutanei specifici collegati alle funzioni della riproduzione e dell’allevamento della prole come il rapporto sessuale e il parto.
Oltre a ciò, l’ossitocina è legata anche all’allattamento. La sua secrezione è, infatti, determinata oltre che dalla suzione della mammella da parte del bambino, dal contatto “ravvicinato” tipico di questo delicato momento. Lo stare pelle a pelle, pancia a pancia.

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Simbiosi, nutrimento e strutturazione della coscienza:

Detto tutto ciò, diventa evidente come la FAME e il NUTRIMENTO siano quindi considerabili come alcuni degli elementi base di strutturazione non solo del legame madre-figlio, ma anche, considerando il materno psichico come un apeiron d’origine, del sorgere della coscienza.
Vediamolo nel dettaglio.
In principio, di fronte alla sofferenza atroce che gli procura lo stato di fame e alla soddisfazione immensa del nutrimento che ne consegue, possiamo immaginare che il bambino non differenzi un soggetto (lui stesso, affamato) da un oggetto (ciò che nutre). E creda, pertanto, che il seno (o il biberon) colmo di latte, giunga magicamente da se stesso. Quasi ci fosse un passaggio automatico tra fame e sazietà. Tra malessere e benessere.
Col tempo, però, (grazie anche a qualche ritardo nella somministrazione del cibo) egli inizia lentamente a comprendere che ciò che lo nutre, in realtà, è qualcosa di esterno. E che questo qualcosa giunge per l’intercessione di qualcun’altro (la mamma), che glielo offre. Assicurando una relazione.
Soggetto e oggetto vengono dunque via via differenziandosi. E il piccolo scopre anche che ciò che lo turba (il senso di fame) può essere in parte placato, nei momenti di attesa, dalla possibilità di immaginare proprio l’oggetto che può soddisfarlo.

La separazione dell’Io dalla psiche:

Immagine e realtà, Essere ed Ente, si separano determinando una discrepanza tra Io e Non-Io. Nella mente del bambino inizia ad affacciarsi l’essenza dell’Altro. Dapprima Altro-Mamma, poi Altro-Papà. Infine Altro-Mondo (intorno ai nove mesi, quando compare la paura per l’estraneo). E, per confronto, scatta il desiderio di definizione di sé, della propria volontà, della propria autonomia. Tuttavia, più il bambino scopre se stesso, più la sua spinta alla separazione diviene netta, più aumentano dentro di lui emozioni contrastanti. La mamma diviene allora sia l’ancora di salvezza, il porto sicuro in cui restare, sia l’elemento dal quale occorre allontanarsi.

Allattamento e nutrimento della Grande Madre.
Un esempio:

Avete presente d’estate, in spiaggia, i bambini intorno a un anno, un anno e mezzo (appena acquisita la capacità di camminare e correre)? Di punto in bianco iniziano ad allontanarsi. Poi si fermano, controllano se la mamma si è accorta di questo e li sta inseguendo. Se lo fa, riprendono a correre e si allontanano ancora. Se li tiene solo d’occhio, ma resta ferma, spesso e volentieri si assiste al ritorno.
Il bimbo ama l’autonomia, ma si sente in colpa nel lasciare il calore della mamma.

La separazione:

Ed è qui che si gioca, dunque, una delle partite più importanti. Non è, infatti, solo il piccolo a dover rinunciare alla simbiosi per crescere e svilupparsi, ma anche la mamma deve farlo. Rinunciare all’onnipotenza, rinunciare alla bellezza di quel rapporto totalizzante (con tutta la soddisfazione e il senso di pienezza che comporta) e fare un passo indietro. Del resto: non facciamo figli per noi stessi. Noi siamo, come ben spiega James Hillman ne “Il codice dell’anima”, solo il tramite attraverso il quale la loro anima sceglie di incarnarsi sulla terra e realizzare se stessa. Dobbiamo consentirgli di farlo. Sostenerli, incoraggiarli e, quando è il momento, lasciarli liberi di andare per la loro strada.  
Anche questo passa per un nutrimento. Certo, basta latte, basta pappine…basta smettere di preparare tutto al loro posto. Non si tratta però di un nutrimento meramente letteralistico. È tutto una meravigliosa, potente, metafora.

Allattamento e nutrimento della Grande Madre.
Nutrimento psichico:

Ciò che va nutrito, infatti, è il senso di autoefficacia e di autostima. L’incoraggiamento a poter fare ciò che è possibile da soli. Il sentirsi in grado. Quel “dai, che sei capace”, che potrebbe permettere al bambino, ormai divenuto grande, di sentirsi sempre più padrone della propria vita. E responsabile di sé. Dobbiamo permettere ai nostri figli di sconfiggerci e ucciderci immaginativamente per costruire nuove immagini dei propri genitori interni. La Madre interiore che permetterà di accogliere tutto ciò che sarà necessario accogliere e che insegnerà ad aver cura di sé. E il Padre interiore che fornirà regole e guiderà nel mondo.
Non siamo onnipotenti. Il destino dei nostri figli non ci appartiene né dipende da quello che facciamo o non facciamo. Ma possiamo lavorare su di noi affinché essi possano realizzare ciò che sono chiamati a essere, senza influenzarli proiettando su di loro contenuti nostri.
Questo è il nutrimento.

Allattamento e nutrimento della Grande Madre…conclusioni:

Siamo chiamati a prenderci cura del cucciolo che ci ha scelto nel momento in cui ci ha scelto. Ma nel prenderci cura di lui/lei dobbiamo imparare a riconoscere, assecondare e nutrire la sua natura, sostenendolo nello sviluppo di tutti quegli strumenti che poi gli saranno utili nel suo andare nel mondo.
Che importa allora se, nelle prime fasi, questo nutrimento deve passare per un latte non nostro?
Se non abbiamo latte a sufficienza per riempire il suo stomaco e dobbiamo ricorrere alla famosa “aggiuntina”? Non è nella letteralizzazione l’azione fondamentale. Restiamo comunque mamme e assolviamo comunque al nostro dovere anche se non traiamo latte da noi stesse.
È il “latte” immaginale ciò che conta, il nutrimento psichico che possiamo dare.
In altre parole: l’amore.
E quello, nessun seno pieno al mondo potrà mai sostituirlo.

dott.ssa Michela Bianconi

Bibliografia:

[1] https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_303_allegato.pdf
[2] U. Galimberti (2020): Heiddeger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, quarta edizione, dicembre 2020, pag. 144-145.
[3] Hillman, J. (1975): Re-visione della Psicologia, Milano, Adelphi edizioni s.p.a., 1983. Quarta edizione: novembre 2008. 
[4] J. Hillman e S. Ronchey (2021): L’ultima immagine, Mondadori Libri s.p.a., Milano, pag. 123
[5] Intesa come sinonimo di psiche.
[6] Risquez, F. (1983): La femminilità. Un approccio mitologico, Palermo, Nuova Ipse Editore srl, 1994, pag. 26.
[7] Begründen: termine tedesco che indica il senso di gettare le fondamenta.
[8] Idem.
[9] Idem.
[10] Neumann, H. (1949): Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio Ubaldini Editore, 1978.
[11] Risquez, F. (1983): La femminilità. Un approccio mitologico, Palermo, Nuova Ipse Editore srl, 1994, pag. 29.
[12] Ibidem, pag. 28.

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