I gatti, le donne e i grandi criminali hanno questo di comune, essi rappresentano un ideale inaccessibile
e una capacità di amare se stessi che li rende attraenti.
(Sigmund Freud)
Ho sognato un gatto. Animali nel sogno:
“Dottoressa, questa notte ho sognato un gatto. Un bel gattone grigio striato che dormiva acciambellato su una sedia di legno impagliata. Appena mi sono avvicinata si è svegliato e ha preso a fissarmi con insistenza. Era inquietante”.
Possiamo leggere tutti gli animali che compaiono nei nostri sogni come immagini di noi stessi, il cui scopo potrebbe essere sia quello di indicarci come sta la nostra psiche nel qui e ora che, allo stesso tempo, quello di inviarci un messaggio. Un’indicazione su ciò che sarebbe bene conoscere di noi stessi, modificare o integrare. Proviamo, allora, a dire quale simbologia c’è dietro il gatto e che cosa rappresenta quando lo sogniamo molto, quando siamo allergici o quando ci fa paura. Ma prima…
Perché utilizziamo la simbologia?
Dobbiamo sempre tenere presente che la nostra psiche parla costantemente per simboli, possedendo una struttura arcaica, precedente alla nascita della logica. Un aspetto che fa sì che le immagini dei nostri sogni, per essere comprese, abbiano bisogno di esser, di volta in volta, riportate al significato simbolico avuto nelle culture antiche…
Il gatto nell’antichità:
Come spiega Claudio Widmann, all’inizio del libro Il gatto e i suoi simboli (2012):
La storia del gatto è antica. Inizia due milioni di anni fa, quando tra i felini si differenzia il felis sylvestris, che è l’antenato diretto del gatto contemporaneo. Per un tempo enorme questo animale rimane esclusivamente selvatico: si avvicina agli insediamenti umani soltanto verso il 2000 a.C., nelle regioni della Nubia e dell’Egitto. Anche se testimonianze archeologiche rinvenute a Cipro dovessero arretrare gli inizi del suo inurbamento al 7000 a.C., la proporzione tra il periodo di selvatichezza e quello di vita domestica non cambierebbe di molto; la comunanza con l’uomo rimane storicamente tardiva e il gatto resta l’animale di più recente domesticazione. Dopo essersi avvicinato agli insediamenti abitativi, il gatto entra in relazione profonda con l’uomo; dopo pochi secoli, in Egitto è già elevato al rango di divinità. Verso il 1250 a.C., difatti, un papiro recita: «Il nome del dio che veglia su di te è miw». Miw è voce onomatopeica che allude al miagolio e, nella lingua egizia, è nome comune di gatto[1].
Bastet:
Tempo dopo, nello stesso luogo, Miw inizia ad assumere i tratti di una divinità femminile caratteristica del pantheon egizio: Bastet, onorata principalmente nella regione del delta del Nilo.
In questo processo di deificazione, il gatto assume qualità propriamente archetipiche e specializza alcune connotazioni, tra cui l’aspetto femminile e le qualità ferine. La dea Bastet, difatti, oltre a essere squisitamente e graziosamente femminea, è anche sorella di Sekhmet, una dea a testa di leonessa, frequentemente ritratta con il muso arrossato dal sangue delle sue prede[2].
Figlia di Ra (il dio sole), Bastet è una dea dal duplice aspetto, pacifico e terribile. Nella sua forma di gatta o di donna gatto è la dea benevola, protettrice dell’umanità, dea della gioia e delle partorienti. Nel suo aspetto feroce, invece, è nota per le sue collere, rappresentata con testa leonina, e identificata con Sekhmet, la Possente, dea della guerra (oltre che della medicina).
Il gatto, simbolo di femminilità:
Come tutti i felini è attraente e pericolosa assieme, dolce e crudele: è il simbolo della femminilità. Bastet era, infatti, signora dell’amore, della gioia, del piacere, della danza e del canto. Incarnava tutto ciò che di più intimo e femminile si possa avere: la sensualità e la dolcezza, il fascino e la generosità, l’amore e la passione, il desiderio e il piacere, la vita che rifulge in tutta la sua pienezza. E sotto la sua protezione erano posti tutti coloro che incarnavano questi aspetti di indipendenza e di fascino misterioso, di fragilità e di bellezza. Bambini e donne in primis. In particolare, da queste ultime, Bastet era invocata per favorire la fertilità e proteggere la gravidanza, il che rende questa dea anche una divinità legata al materno.
A maggior riprova di tutto ciò, è possibile far riferimento sia al mito della lotta quotidiana di Ra col serpente Apophis, colui che contrasta la corsa della barca solare e delle forze benigne della creazione, nel quale Bastet ha un ruolo centrale, sia ad alcune raffigurazioni ritrovate in una delle tombe della Valle delle Regine, dove la dea è raffigurata portando dei coltelli proprio con lo scopo di proteggere il figlio del re. Oppure, infine, si può rimandare al legame con il faraone, che si dice Bastet stessa abbia partorito e allattato, e del quale si erge come protettrice.
Il gatto, simbolo della protezione materna:
C’è un altro mito che narra di questo possibile intersecarsi dell’immaginario felino con quello materno: il Patto del Gatto e del Diavolo. La storia racconta di una donna che, dovendo momentaneamente lasciar solo il suo bambino in casa, chiese al proprio gatto di proteggerlo. All’arrivo del Diavolo, giunto per prendere il piccolo e portarlo via, l’animale saltò davanti alla sua culla per impedirlo. E propose un accordo: tre tentativi per indovinare il numero esatto dei suoi peli.
Sfidato proprio nell’ambito che più preferiva, il Diavolo accettò e con molta pazienza iniziò a contare i peli dell’animale, distraendosi, però, ben due volte e dovendo ricominciare.
Al terzo tentativo, il gatto mosse leggermente la coda strofinando il naso del Diavolo, e lui starnutì. E tutti i peli volarono da ogni parte.
Il Diavolo era così furioso della sua perdita, che giurò che un giorno avrebbe saputo dire quanti peli aveva un gatto, così da poter tornare e finire il suo compito. Così se ne andò. Quando la donna tornò a casa, ignara dell’accaduto, abbracciò e baciò il bimbo. Poi si girò verso il gatto e facendogli delle carezze dietro l’orecchio lo ringraziò per l’ottimo lavoro svolto. Ecco perché i gatti fino ad oggi lasciano sempre peli in giro. Perché in questo modo il Diavolo non compirà mai la sua vendetta. Non saprà mai quanti peli hanno in realtà…
Il gatto, simbolo dell’astuzia e dell’opportunismo:
Questo mito racconta anche un altro aspetto tipico del gatto: l’astuzia che, a estreme conseguenze, potrebbe far apparire questo animale come un simbolo di opportunismo. Il gatto, infatti, non solo sa quello che vuole, ma sa anche come raggiungerlo. I legami che stabilisce con i suoi proprietari sono veri perché dettati da una scelta. Il gatto, infatti, non dipende dal proprio “proprietario”, ma sceglie ogni volta, dopo ogni esplorazione del mondo e dopo ogni nuova avventura, di tornare da lui per una decisione volontaria e non per bisogno di dipendere. Ciascun gatto potrebbe, se solo lo volesse, trovare cento potenziali “padroni” disposti ad “adottarlo” con sole poche moine e qualche strusciamento, eppure sceglie di tornare sempre dallo stesso, scegliendo a chi appartenere, anche se mai del tutto. Il gatto non si controlla, preserva la propria indipendenza, il che potrebbe anche indurre a temere il suo aspetto libero.
Il gatto, simbolo di indipendenza:
Come scrive Widmann:
Questo animale è detto domestico, ma in realtà non è mai stato addomesticato; si è avvicinato all’uomo motu proprio. Per probabili ragioni di sopravvivenza scelse autonomamente di approssimarsi agli stanziamenti umani e vi si insediò sempre più stabilmente; non venne catturato dall’uomo, piegato ai suoi fini e utilizzato per i suoi vantaggi. Nel processo di domesticazione del gatto manca quell’opportunismo utilitaristico che indusse l’uomo a catturare altri animali, a costringerli alla cattività, a plasmare il loro comportamento in modo da renderlo compatibile con le proprie esigenze e con il proprio stile di vita. Non a caso, inizialmente, il gatto viene ritenuto un animale inutile; la sua abilità nel catturare topi e piccoli roditori è un «effetto collaterale» rivelatosi utile solo in un secondo momento, niente più che un vantaggio secondario della prossimità tra gatto e uomo.
Il gatto, valore simbolico:
Tutti aspetti sin qui analizzati, se considerati per il loro valore simbolico, potrebbero aiutarci a riflettere non solo sulle nostre relazioni effettive con i gatti. Li amiamo? Ci sentiamo attratti da essi? Ne abbiamo paura? Ci risultano indifferenti? Ma anche sulla relazione metaforica che abbiamo con tutto ciò che questi straordinari animali rappresentano dentro di noi.
In che rapporto sono con il mio femminile, con la mia sensualità, la mia eleganza? In che rapporto sono con il mio materno protettivo? Sono astuto? So essere opportunista come un gatto? Mi sento indipendente e autonomo?
Conclusioni:
Sulla base di queste domande, cerchiamo allora, ogni volta che un gatto compare nei nostri sogni, di chiederci quale segnale la nostra psiche ci stia dando, o quale contenuto veicoli questo particolare, peloso, messaggio. Su quale aspetto di me devo lavorare? Cosa devo migliorare o trasformare nella mia vita?
In fondo, come racconta una popolare leggenda irlandese: “Gli occhi di un gatto sono finestre che ci permettono di vedere dentro un altro mondo”. Il mondo che abbiamo dentro di noi e che, come un gatto, ha solo bisogno di essere scoperto, apprezzato, amato…
Dott.ssa Michela Bianconi
Bibliografia:
[1] C. Widmann (2012): Il gatto e i suoi simboli, Magi Edizioni, Roma, pag. 10.
[2] Ibidem.