Fare foto, scrivere con la luce:
“Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”.
(Henri Cartier-Bresson)
Dal greco φῶς, phôs:”luce”, e -γραφή, graphè: “disegno, scrittura”, il termine fotografia significa: “scritto con la luce”. Un’azione che, già di per sé, sembra indicare quasi una magia, giacché in grado di trasporre una sensazione fulminea e impalpabile in un’immagine che, di lì a quando lo si vorrà, potrà sempre richiamarla, ricordarla, permettere di riviverla.
Fare foto, fissare l’immagine:
Fare una foto è, infatti, spezzare la linearità del tempo che scorre, per catturare un istante e renderlo immortale. La fissazione di qualcosa, altrimenti, unico e irripetibile, che viene così democratizzato e lasciato libero di ispirare simili impressioni in chiunque. Perché, in fondo, le fotografie, come le opere d’arte, non appartengono solo all’artista che le scatta (professionista o dilettante che sia). Ma appartengono a tutti. Appartengono all’umanità, vivendo un’esistenza del tutto propria e autonoma rispetto a chi le ha partorite[1].
La fotografia è uno strappo della realtà, così come il restauratore fa uno strappo dell’affresco, e nello stesso tempo è una parentesi,
è un sottrarre alla realtà dal suo sistema di insieme per restituire uno sguardo privilegiato, volutamente concentrato […]
…alla […] domanda: a cosa serve la fotografia, rispondo: la fotografia serve a rendere plurale il soggetto…
(Achille Bonito Oliva)
Il fotografo come sacerdote:
È qui che il fotografo, come il poeta nell’immaginario di Percey Shelley, diventa dunque il sacerdote di un’ispirazione misteriosa[2]. Qualcuno cioè che, per il tramite del proprio strumento (la macchina fotografica), può veicolare agli altri ciò che, prima di tutto, ha colpito il suo occhio e commosso la sua anima. Come afferma Anselm Adams (fotografo statunitense), infatti:
non fai solo una fotografia con una macchina fotografica.
Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato.
Ma che cos’è di preciso che trasmette?
Immagine fotografata, anima “catturata”:
Scrive Steve McCurry, a proposito del suo “Monaco al tempio di Jokhang”:
Ho catturato questo ritratto di un monaco del tempio di Jokhang a Lhasa durante un viaggio in Tibet.
C’era qualcosa nel suo volto.
C’era un antico sentimento, una sorta di antica verità lì.
Non avevo mai visto una faccia simile.
Le linee del tempo tracciano una storia personale profonda sul viso.
Egli guarda nell’obiettivo della macchina fotografica con uno sguardo di ricerca.
Sembra come se la sua sia stata una vita di indagine, una ricerca di una verità a livello profondo…[3]
Ho catturato, dice il famosissimo fotografo. Dal latino captura, der. di capĕre «prendere, far prigioniero».
Ci sono luoghi al mondo in cui si crede che una foto possa rubare l’anima e intrappolarla. Si tratta di una credenza piuttosto diffusa che, a onor del vero, non riguarda solo la carta fotografica o gli schermi delle fotocamere, in sé e per sé, ma tutto ciò che possiede una superficie riflettente, specchi inclusi. Una sorta di magia che, a una mente allenata al mito, non può che richiamare (per certi versi) la malinconica figura di Narciso (irretito dal proprio riflesso sull’acqua e da esso catturato).
Fare foto, far proprio l’impalpabile:
Eppure, per quanto questo pensiero possa apparirci ingenuo e infantile, ci resta difficile contraddirlo. E difficile è, ancora di più, anche solo pensare di negare la ricerca di quel livello di profondità che sembra trasparire dal volto del monaco. La fotografia, per dirla paragrafando Enzo Trifolelli, infatti, non solo cattura il soggetto (il monaco), ma va oltre questo, mirando direttamente a carpirne l’essenza più impalpabile. E il bello è che questa essenza parla a ciascuno di noi in miriadi di modi differenti…tanti quanti sono gli atteggiamenti che potremmo avere nei suoi stessi confronti. Già: perché il rapporto che si instaura tra noi osservatori e ciò che osserviamo è sempre un rapporto legato a un istante, al qui e ora che stiamo vivendo. Ed è dunque sempre connesso al modo in cui vediamo noi stessi.
Un po’ come portare un paio di occhiali psichici. Vedo il mondo realmente per quello che è? O vedo il mondo per come io stesso sono, qui, ora, in questo preciso momento?
La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha.
(Neil Leifer)
Il concetto di immagine:
Si tratta, in definitiva, d’interrogarsi su uno degli aspetti centrali della Psicologia Archetipica: quello d’immagine. E sul significato ancestrale di questo stesso termine: da εἶδος (eidos): ciò che vedo, ma anche ciò attraverso cui io vedo. Il mio metro di paragone con tutto: me stesso. Perché una foto non riguarda soltanto il nostro vissuto interno, nel momento in cui la scattiamo o quando la ricerchiamo tra i vecchi album. Ma riguarda noi stessi anche quando la osserviamo esposta in una galleria, la scegliamo tra altre prodotte da terzi, o ci salta improvvisamente agli occhi mentre gironzoliamo, annoiati, sui social network.
Quello che si fotografa non è quello che vediamo, ma quello che siamo.
(Franco Fontana)
Chi, come, cosa, perché?
In questi casi, la domanda da porsi non è, allora, “come” o “perché”, ma “cosa”. “Chi”. Quale parte di me si riconosce in questo scatto? Che storia narra di me (a me stesso) la sensazione che mi suscita questa foto? C’è una parte che voglio fissare e rendere eterna, scegliendo di scriverla con la luce? Di certo, possiamo essere sicuri che, come afferma Annie Leibovitz:
Non si smette mai di guardare. Non si smette mai di inquadrare.
Non c’è un interruttore per accendere e spegnere. È sempre in funzione.
E questa è una fortuna.
Fare foto, esplorare l’anima:
Impariamo, dunque, a osservare tutto ciò che c’è intorno a noi, come in un paesaggio inesplorato. E approcciamo a esso come esploratori in avanscoperta. Affamati e assetati di conoscenza. Tutto ciò che di più attirerà la nostra attenzione, tutto ciò che cercheremo di immortalare per conservarlo nella nostra memoria è parte di noi. Di come siamo qui, ora, in questo preciso momento. Qualcosa di unico e irripetibile che, anche se a distanza di anni potrà sempre suscitarci una qualche nostalgia, comunque non tornerà più così. Pur offrendoci sempre l’opportunità di richiamarlo a noi, in ogni singolo momento.
Come? Tramite l’immagine ovviamente.
Fotografare, ricordare, ricostruire e raccontare nuove storie:
Un’immagine che ci racconterà lo stesso evento. Oppure una storia diversa. Tutto dipende dal narratore attivo, dentro di noi, nel momento in cui ci accingiamo a riosservarla. Da chiunque si affacci, dentro di noi, per richiamarla alla memoria. È così allora, ad esempio, che il trauma da tragedia può diventare un’opportunità colta, che la felicità può diventare la forza per compiere un salto evolutivo. O un ricordo può diventare un rito di passaggio. Ciò che ci sembra bello o brutto in un certo momento (la foto che ne abbiamo scattato quando lo abbiamo vissuto) può essere la ripetizione di un racconto o l’inizio di qualcosa di nuovo. L’essenza dell’evento non cambia. Ma cambia il significato e il senso che possiamo attribuirgli. In fondo, è così che la fotografia diviene portatrice di un peso interiore, di uno spessore, di un dato profondo, di un sospetto, che serve poi a rileggere il passato e a darci una traccia della nostra condizione[4]…
Fare foto, conclusioni:
È il rapporto tra eidos: ciò che vedo, ed eidos: ciò attraverso cui io vedo. La stessa parola per indicare la stessa identità, perché, ciò che vedo e ciò attraverso cui io vedo (cioè me stesso) sono la stessa cosa. Ci cerchiamo nel mondo. Ci cerchiamo nei volti e negli sguardi degli altri.
C’è molto da scoprire nell’immensa galleria dell’anima.
Basta solo saper guardare.
Osservare. È il modo di educare il tuo occhio, e altro ancora.
Osservare, curiosare, ascoltare, ascoltare di nascosto.
(Walker Evans)
Buona esplorazione.
Dott.ssa Michela Bianconi
Bibliografia:
[1] Cfr. M. Bianconi (2020): Il poeta è un ladro di fuoco, indipendently published, 2020, pag. 36.
[2] Cfr. Shelley P.B., 1821. In Defence of Poetry, trad it. In difesa della Poesia, 2013, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, pagg. 55-56.
[3] http://stevemccurry.com/biography (traduzione mia)
[4] Achille Bonito Oliva.