Il sacrificio del padre. Premessa:
Rimasero a terra, in ascolto. Ce la farai? Quando sarà il momento? Quando sarà il momento non ci sarà tempo. È questo il momento. Bestemmia Dio e muori. E se si inceppa? Non può incepparsi. Ma se si inceppa? Saresti capace di fracassare quel cranio adorato con un sasso? C’è un essere simile, dentro di te? Di cui tu non sai nulla? Ci può essere? Tienilo stretto. Ecco, così. L’anima è un soffio. Abbraccialo. Bacialo. Svelto.
(McCarthy _ La strada)
Chi non ha un padre, se lo deve dare.
(F. Nietzsche)
Il sacrificio del padre:
Osserviamo queste immagini.
Due gesti d’amore.
Un bacio. Un bambino stretto tra le braccia di due genitori che si guardano negli occhi senza parlare. La stessa posa. Lo stesso atteggiamento. La stessa, identica, intensità.
Ciò che rende drammatico il sacrificio di Ettore non è la solo la storia di una guerra che tutto inghiotte e tutto divora. Quella di Kiev a fronte di quella di Troia. Ma la poesia vera che si cela dietro questo istante reso immortale.
Non ci occuperemo di conflitti, in questo articolo. Né ci sforzeremo di premere il tasto play della vita per restituire questi uomini e queste donne, con i loro bambini, al placido scorrere del tempo. E delle loro storie. Scene così belle non necessitano un’ulteriore drammatizzazione.
Piuttosto, cercheremo di addentrarci al loro interno. Sciogliendo la forma per afferrare il contenuto archetipico che in esse si cela. Diciamo così: inseguendo l’amore.
Il saluto di Ettore:
Andiamo, allora, dirette, alle parole di Omero:
Così detto, distese al caro figlio
L’aperte braccia. Acuto mise un grido
Il bambinello, e declinato il volto,
Tutto il nascose alla nudrice in seno,
Dalle fiere atterrito armi paterne,
E dal cimiero che di chiome equine
Alto su l’elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il genitor, sorrise anch’ella
La veneranda madre; e dalla fronte
L’intenerito eroe tosto si tolse
L’elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Ettore:
Il vecchio aedo greco ci presenta, in questa scena, un Ettore risoluto. Un principe pronto a tutto pur di difendere il suo regno e la sua famiglia. E un guerriero, però, che ben lungi da ciò che sembra il contesto in cui si trova, trascinato e dilaniato dalla cruda brutalità dei campi di battaglia, pur sorride della spaventata reazione del figlioletto dinnanzi al proprio elmo. E se ne priva, senza remore, per abbracciarlo ancora una volta e stringerlo a sé.
Raggiante sul terren lo (l’elmo) pose, specifica, allora, il poeta. Lasciando all’immaginazione del lettore l’opportunità di chiedersi se ciò che emana davvero luce in quel momento sia più l’elmo ornato di chiome equine o il principe stesso. Sorpreso in un inaspettato gesto di premura.
La meraviglia che si prova di fronte a Ettore, infatti, non sta nel tipico eroismo guerriero. Eroismo al quale, anzi, egli sembra piuttosto contrapporsi drammaticamente, come spesso mostrato dal parallelismo con Achille. La meraviglia che si prova di fronte all’Ettore di questa scena sta nel suo ostinarsi a preservare la propria umanità. Quasi sfuggisse, sotto gli occhi del lettore, all’idea di voler essere inquadrato troppo in un unico ruolo.
L’umanità dentro l’inumanità:
“Io sono un uomo innamorato”, sembra ribadire “sono un marito e sono un padre. Non mi sottraggo al mio destino. Se devo combattere, combatterò. Ma prima…”. Prima si ferma, ancora una volta. E, spogliato di armi e protezioni, rende un ultimo omaggio alla vita e all’amore.
Eros, prima di Tanathos.
La guerra, infatti, come ben spiega James Hillman (2004), porta a un accomodamento con la morte [1]. Ogni aspettativa di vita e circa la vita, tutto ciò che definisce l’identità di una persona, viene meno. La psiche non è più la stessa di prima [2].
La violenza della guerra non consiste tanto nel ferire e nell’annientare,
quanto nell’interrompere la continuità delle persone…
nel far loro mancare non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza…
La guerra…distrugge l’identità dello Stesso…[3]
La terribile alleanza tra Marte e Tanathos. Romolo e Remo:
Una comunione che conosciamo fin troppo bene. E che la stessa mitologia tramanda, ponendola alle origini della nostra cultura. Agli albori dell’impero romano. Siamo al cospetto di Romolo e Remo. I figli di Marte (dio della guerra) e Rea Silvia, che sacralizzarono i confini di Roma col sangue l’uno dell’altro. Un omicidio efferato, nato da una promessa e da un gioco. Remo che infrange i confini della terra creati da Romolo per far sorgere la nuova città. E viene, pertanto, ucciso dal gemello, cioè da qualcuno con la sua stessa faccia. Uno specchio costante. Un continuo rimando alla propria identità.
È così che accade.
Affinché gli si possa rendere realmente omaggio sui campi di battaglia, Marte uccide chi siamo, chiede il sacrificio della nostra parte più scherzosa, più vitale. Il sacrificio stesso del nostro spirito di sopravvivenza. Perché non si combatte se si ha paura di morire. Non si combatte se si è eccessivamente attaccati alla vita.
È questa l’inumanità della guerra. Una negazione di ciò che, più di tutto, ci rende umani.
Thnetoi: mortali.
Eppure Ettore ci riesce.
E, disconoscendo, per un attimo, quest’assurda alleanza tra Marte e Tanathos, di fatto consegna l’umanità all’eternità.
Un controsenso?
Un paradosso.
Thnetoi, mortali: così i greci chiamavano gli uomini.
L’umanità è mortalità; la mortalità è l’unica, ineludibile verità universale sugli esseri umani.
A noi…la morte è data insieme alla consapevolezza della nostra natura
e questo colora profondamente e indelebilmente la nostra immaginazione…[4]
Eppure ecco che accade. Il principe guerriero si spoglia del suo habitus pronto alla battaglia per essere un’ultima volta, per sempre, un padre, un marito, un amante. Perché? Perché ciò che avviene alla fine di una sequenza ne bolla la chiusura, le conferisce finalità. Echi di destino [5].
In questo sta la poesia di Omero e delle due immagini.
Il sacrificio del padre. L’ultima volta:
Come spiega Hillman (1999):
Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le cose dicht (spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la complessità, il senso e l’importanza. Portando a conclusione una serie di eventi che sarebbe altrimenti potuta continuare all’infinito, l’ultima volta si pone al di fuori del tempo seriale, è trascendente…L’ultima volta trasforma in poesia l’amore, il dolore, la disperazione e l’abitudine. Mette lo stop, arresta il moto in avanti, solleva la vita fuori da se stessa. La trascendenza è appunto questo [6].
Ebbene, prima che la vita torni in se stessa e che si arrenda all’inumanità della battaglia, eccolo il gesto di Ettore, così piccolo, così precario e potente al tempo stesso. Un bacio. Un ultimo saluto.
E il pianto a sciogliere ogni emozione. A portar via gli ultimi incrostamenti di vita dalla pelle del soldato. Prima di votarsi a Marte e a Tanathos, l’assassino del quotidiano, per andare incontro al proprio destino.
L’istante e tutto ciò che resta:
Che cosa resta dunque? Verrebbe quasi da chiedersi a questo punto.
La nostalgia? Il dolore? L’assenza?
L’immagine:
…è l’immagine che dura e che può essere riflessa sempre di nuovo
in un’infinità di racconti diversi a mostrare il carattere in azione [7].
Quel gesto fugace, intorno al quale si annida l’essenza stessa dell’Ettore, padre, pronto al sacrificio.
Il sacrificio del padre nella storia e nella letteratura:
Proiettiamoci, ora, in un altro contesto. Non troppo dissimile.
Un’altra storia. Un altro padre. Una partita a scacchi terrificante.
«Che cosa desidera ora il tuo cuore?».
«Solo questo», rispose Francis Crawford. «Che quando darò questa mossa io possa lasciare in vita il bambino».
«La regola non dice questo», disse pacatamente Roxelana. «La regola è chiara. Infrangila e perderai».
Gli occhi azzurri indagatori incontrarono i suoi, ma lo sguardo scuro non restituì nulla. «Concedimi allora di prendere il posto del bambino», continuò con voce piatta Lymond. «Non ho obiezioni…»[8].
La letteratura e la storia sono dense di scene di questo tipo.
Scene di padri pronti a rinunciare persino alla propria vita per salvare i propri piccoli, per proteggere le proprie terre. La loro libertà.
Il sacrificio del padre. Lettura etimologica:
Perché il sacrificio, in fondo, è un gesto di omaggio. Un rendere onore con il proprio sangue e la propria vita a un bene che si considera maggiore. O di importanza cruciale.
Un fare sacro (sacrum facere) che attribuisce valore.
E a chi, se non al perpetuarsi della vita tramite il figlio stesso?
Il sacrificio del padre:
Eccolo, pertanto, il padre. Un termine che, già nella sua origine etimologica, racchiude in sé il seme della protezione e del nutrimento. Da pa-, stessa radice di pane. Colui che provvede alla sopravvivenza della famiglia. Qualcosa che Ettore incarna fin troppo bene, sia come uomo e genitore di Astianatte che come principe e padre del popolo.
La sua pubblica funzione di protezione lo spinge, infatti, sul campo di battaglia, proiettandolo in un potenziale immaginario di forza, potenza e accettazione del male. Eppure nel privato egli non insegue altro che l’amore, al punto da elevare il figlio al di sopra della sua stessa testa. E porlo un gradino sopra di sé.
La preghiera a Zeus, padre degli Dèi:
È uno dei motivi per cui il racconto di Ettore ci tocca più delle gesta di Achille.
Così come lo sguardo di Abramo, infatti, è fiero quando alza il coltello su Isacco, nel rendere omaggio a Dio Padre, allo stesso modo anche quello di Ettore è colmo di rispetto verso l’alto, quando invoca la propria preghiera a Zeus. Padre degli Dèi.
Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio.
E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: È molto più forte del padre [9].
Entrambi, pur in gesti apparentemente così diversi l’uno dall’altro, sono così nel pieno esercizio delle proprie funzioni. Nel pieno omaggio di quell’idea di Padre presente dentro di loro. Così come presente dentro ciascuno di noi. Un padre che non onora soltanto il figlio, ma la speranza stessa che egli incarna, in quanto vita che persegue vita. E che lo presenta, così, al mondo, nel modo più completo che si possa immaginare. Attraversando immagini di guerra e di amore, di vicinanza e di addio, di ruvidità e di morbidezza. Immettendolo in esse e allo stesso tempo elevandolo al sopra di esse. In un gesto che gli antichi romani, più tardi, identificarono proprio l’atto del riconoscimento. Della discendenza che non si estingue, e che, anzi, al contrario, si fortifica. Contrastando lo scorrere del tempo.
Il compito del padre:
Il compito del padre è proprio contrastare il tempo: istituire una responsabilità che non muti con esso,
costruendo continuità e memoria; e rigettare l’azzeramento che il trascorrere di ogni generazione comporta [10].
È questo il senso del padre e dell’essere padre.
Calare un figlio nel mondo che gli appartiene, così che questi possa prendersene cura con dedizione e responsabilità. Eppure, al tempo stesso, innalzandolo sopra di esso, così che egli possa vedervi oltre e proiettarsi verso un miglioramento. Quasi una sorta di strano radicamento, il cui scopo però, ben lungi dal riguardare l’immobilità, sia piuttosto quello di sancire un movimento. Una direzione verso l’esterno, verso il superamento dei confini. Verso l’esplorazione delle potenzialità. Instaurando una fame nel cercare che non implica soltanto un cercare fuori, ma che prima di tutto è un cercare dentro. Quel diventare adulti, cioè, come sottolinea Luigi Zoja, che è la meta del viaggio del figlio.
E se il padre manca fisicamente?
È così che il padre diventa una guida. E una guida in grado di accettare anche quegli strappi che sembrano lutti, dolori abissali di perdite, lontananze, se dati sotto forma di sacrifici offerti. Di riconoscimento di valori, come dimostra Ettore.
Una guida nella presenza così come nell’assenza. Perché se il padre non c’è fisicamente, il viaggio di certo non si blocca. La fame di ricerca resta comunque attiva. E resta attiva dentro. Incentivata e nutrita dall’assenza stessa. Dalla distanza stessa. Come ben spiega l’antropologa Margaret Mead: dove il padre è stato assente o non è mai stato, i figli continueranno ad averlo perché la loro immaginazione ha continuato a vederlo: perché se lo sono insegnato da soli.
Padri e madri. Diversi tipi di nutrimento:
Del resto, diciamocelo: un padre non è una madre. Il nutrimento che porta ai figli non è quello della sicurezza del restare, il calore del ventre e la complicità dell’appoggio. Quel latte autoprodotto e senza bisogno di spostamento. Il suo nutrimento è il nutrimento del guerriero, del cacciatore, del principe che volge al mondo esterno e che di questo si serve, al punto da sacrificare se stesso. E sacrificare il proprio rapporto con il figlio, pur di illustrargli la strada da percorrere. Il suo è il nutrimento della caccia. Il cibo guadagnato assumendosene le responsabilità. E non c’è da mettere in dubbio il fatto che ogni sacrificio costi in qualche modo. Che quella rinuncia alla cura diretta del figlio sia semplice da accettare. Perché in fondo lo sappiamo: cosa c’è di più gratificante?
Ettore ce lo insegna.
Le due foto da cui questo articolo è nato lo illustrano chiaramente.
“Ancora un attimo”, sembrano gridare. “Per favore, un secondo ancora, prima di tornare al dovere”. Prima di riprendere l’attività fuori. Prima di tornare sul campo di battaglia e dimenticare la vita. L’eros. L’amore.
Il sacrificio del padre:
Il padre sacrifica il piacere estremo del figlio per il suo bene.
Mette distanza perché, nello spazio, il bambino possa trovare la spinta a muoversi. A crescere. A diventare chi è realmente. Tagliando il cordone ombelicale che lo tiene ancorato alla sicurezza del ventre materno, per proiettarlo verso una vita autonoma. Verso se stesso.
Del resto ogni mito della creazione parla di questo.
Da Urano che, ritirato in esilio, libera i figli dal ventre di Gea e, nello spazio tra cielo e terra, consegna loro un mondo in cui muoversi e prosperare. A Zeus, il padre che osserva e guida dall’alto del suo scranno sulla cima del Monte Olimpo. Fino al Dio Padre cattolico. Quel Creatore del mondo che, cacciando Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, di fatto li proietta, allontanandoli da sé, verso realtà in cui, per sopravvivere, occorre lavorare con il sudore della fronte. Dove nulla è dato per principio, ma tutto va ottenuto. Lottando, con sacrificio. E concedendo loro di scegliere per se stessi.
Decidere per se stessi. Ed essere se stessi.
Tutto ciò che noi chiamiamo libero arbitrio è frutto del sacrificio del padre che, rinunciando a essere mammo, dona al figlio la propria identità. Fornendo contemporaneamente radici e ali.
Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì.
Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo,
strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro.
(McCarthy _ La strada)
Note:
[1] J. Hillman (2004): Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano, 2005, pag. 43.
[2] Idem.
[3] Ibidem, pag. 44.
[4] Ibidem, pag. 94.
[5] J. Hillman (1999): La forza del carattere, Adelphi, Milano, 2007, pag. 69.
[6] Ibidem, pag. 70-71.
[7] Ibidem, pag. 77.
[8] D. Dunnett (1969): Partita sul Corno d’Oro, Corbaccio, Milano, 2006, pag. 615.
[9] Zoja L.; (2000), Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, p. 92 ed. digitale.
[10] Ibidem, pag.102.
Dott.ssa Michela Bianconi, Dott.ssa Valentina Marra, Dott.ssa Angela Paris.
Bellissimo, stupendo. Niente di più vero vivo sulla mia pelle a 59 anni questa narrazione da padre e ancora anche da figlio . Padre, figlio e spirito santo. Una consapevolezza che è uno stato “doloroso” di grazia.