L’enigma della maschera:
Vi starò in faccia e pur non mi vedrete,
e mi vedrete, se starò distante,
e all’occhio ed al color conoscerete
che sempre copre il vero mio sembiante;
e, se dell’arti mie vaghi voi siete,
cangierò cento forme a voi davante,
e accostando i miei lumi agli occhi vostri,
saprò cagionarvi ancor in belve e in mostri[1].
Le maschere di oggi:
Chissà se Pietro Roussel, nel ragionare sugli enigmi raccolti nella Napoli del 1836, avrebbe mai potuto immaginare, come soluzione di questo antico indovinello, una maschera in grado di celare solo naso e bocca, come una sciarpa nel periodo invernale.
Di certo, non l’avrebbe chiamata FFP2 o chirurgica.
Ma ne avrebbe comunque parlato come di un dispositivo in grado di trasformarci, come suggerisce l’enigma stesso?
Siamo talmente tanto assuefatti alla concezione protettiva della mascher(in)a da dimenticare le origini di questo mirabolante dispositivo. E gli usi effettivi che esso ha avuto in passato. A partire, sì, ovvio, da quello di protezione, fino ad arrivare ad altro. Usi, piuttosto, inconsueti e inattesi.
Proviamo dunque a percorrere un viaggio a ritroso, alla ricerca del significato ontologico e immaginale di questo meraviglioso e, a tratti, magico, oggetto. La maschera.
Le maschere al cinema:
Esatto, Wendy: tutti noi portiamo una maschera, metaforicamente parlando.
Chi, leggendo questa citazione, non ha immaginato Jim Carrey scimmiottare uno psicoanalista di fronte a uno specchio, probabilmente non ha mai visto il film The Mask (1994). Un film cult di cui assolutamente non si poteva non palare in questo articolo.
La storia raccontata è quella di Stanley Ipkiss, un timido e impacciato impiegato di banca, il classico “signor Bravo Ragazzo”, che, una notte, entra in contatto con un’antica maschera nordica. Un oggetto, evidentemente dotato di poteri divini (si pensa riferiti a Loki[2]), che, indossato, ha su di lui un vero e proprio effetto liberatore. Amplificando e dando voce, finalmente, alla sua parte più burlona, estroversa ed estremamente sicura di sé. E trasformandolo in una sorta di strano supereroe deformabile, dotato di poteri da cartone animato e di un’incredibile ironia.
Attraverso la maschera:
L’intero film è completamente incentrato sul dualismo apparente del suo protagonista e sul modo in cui, infine, i due aspetti di lui (l’uomo e il personaggio) finiscono con l’influenzarsi a vicenda. Dando, di fatto, origine a un nuovo Stanley, più scanzonato e mediato rispetto a prima. E offrendo a noi l’opportunità di cominciare a considerare uno degli usi della maschera. Quello, cioè, di dare una forma visibile a un contenuto interno invisibile.
Impossibile non pensare, infatti, che il folle Personaggio dalla faccia verde, incarnato dalla maschera, nel film non sia già un aspetto dello stesso Ipkiss. Una sorta di suo alter ego, come testimoniato anche:
- dalla continuità degli abbigliamenti (il pigiama dell’uomo che diventa la fodera interna della giacca del personaggio);
- dagli interessi (Ipkiss è un appassionato di cartoni animati e il personaggio sembra un cartone animato);
- e dai modi di fare (il lato romantico che Ipkiss non si permette di vivere, straborda, in modo quasi incontenibile, nell’alter ego).
Maschera amplificatrice:
Un tema, questo, non del tutto nuovo nel panorama cinematografico. Basti pensare ai famosi supereroi tratti dai fumetti della Marvel o della DC. Spiderman, Batman, Hulk. Ciascuno di loro ha, nella propria maschera, la possibilità di poter vivere ciò che diversamente non si sarebbe permesso. L’estroversione di Peter Parker. L’oscurità di Bruce Wayne. La rabbia di Bruce Banner.
La maschera, insomma, coprendo il volto di chi l’indossa, funge in realtà da cassa di risonanza per qualcosa di non manifesto che, proprio attraverso di essa, ha dunque la possibilità di poter risuonare e vivere come personaggio sul palcoscenico psichico.
La maschera come persona(ggio):
Esiste, in effetti, una certa parentela tra maschera e personaggio.
Una parentela etimologica, che rimanda all’origine stessa della parola latina persōna persōnam (da cui personaggio). Derivata, a sua volta, probabilmente, dall’etrusco φersu, indi φersuna, che nelle iscrizioni tombali riportate in questa lingua indica i “personaggi mascherati”. Una parentela sostenuta ancora di più dal termine greco πρόσωπον (prósōpon), che indica sia il volto dell’individuo, che la maschera dell’attore e il personaggio da esso rappresentato e dal verbo latino personare, (per-sonare: parlare attraverso). A indicare proprio il ruolo amplificatorio di questo strumento.
Si tratta di un aspetto che, mitologicamente, possiamo rimandare al dio Dioniso, da tutti conosciuto come dio del vino e dell’ebbrezza. Ma che dio del vino e dell’ebbrezza soltanto non lo era davvero.
La maschera di Dioniso:
Citando Walter Otto (1959):
Dioniso è il dio che sopraggiunge, enigmatico nello sguardo che sconvolge. Suo simbolo è la maschera, che presso tutti i popoli sta a significare l’immediata presenza di uno spirito misterioso. Egli stesso è venerato come maschera. Il suo sguardo toglie il respiro, confonde, annienta equilibrio e misura. L’uomo è colpito da follia: può essere la follia beatificante, che rapisce in ineffabili stati di trance, che libera dal peso della terra, che danza e che canta; e può essere la follia oscura, dilacerante, apportatrice di morte[3].
Teofania della maschera:
Dioniso manifesta, di fatti, l’essenza insita nel concetto stesso di divinità: quella cioè di essere completamente Altro rispetto all’uomo. Egli, per antonomasia, è il “dio-altro”, il “dio-straniero” venuto da un altrove immaginario, non geografico. E non si può entrare in contatto diretto con lui. Nessun dio, in fondo, può esser guardato direttamente. Occorre sempre che si mascheri, che assuma cioè una forma più tollerabile che, al tempo stesso, gli permetta di manifestarsi, contenendo però la sua numinosità.
Si tratta di un meccanismo non dissimile da ciò che ci accade mentre sogniamo e, nei nostri sogni, incontriamo persone più o meno (s)conosciute.
La maschera nel teatro greco:
Nell’antica Grecia le maschere furono introdotte da Tespi intorno al 530 a.C. Prima di allora, infatti, gli attori erano avvezzi a dipingersi il volto con trucchi a base di biacca. Un ingresso sul palcoscenico, che fu quasi obbligato dalla strutturazione fisica del teatro greco stesso. Con una distanza di almeno diciotto metri che separava gli attori dal pubblico seduto nella prima fila. E circa novanta che li divideva dalle ultime. Come avrebbero potuto gli spettatori percepire i mutamenti del volto degli attori, fondamentali nelle rappresentazioni teatrali? Come avrebbero potuto individuare immediatamente il personaggio, anche senza che questo parlasse?
Sarebbe stato impossibile.
Ecco perché vennero, infine, introdotte le maschere che siamo soliti vedere nei musei. Ed ecco perché queste avevano una conformazione del tutto particolare, con lineamenti molto marcati. Il loro scopo, come quello di qualsiasi altra maschera (comprese quelle dei moderni supereroi), era quello di consentire un’immediata identificazione del ruolo e del personaggio incarnato dall’attore. Pensiamoci: in fondo com’è che riconosciamo Batman e Spiderman?
Ma proviamo ad approfondire ulteriormente il rapporto di questo mirabile strumento con la divinità.
La seduzione della maschera.
Invito a partecipare alle vicende rappresentate sul palcoscenico:
Dai canti del corteo festivo ai canti del capro, i nomi dei più antichi generi teatrali portano la mente alla divinità che ha portato alla nascita di questo spettacolo: Dioniso.
Come scrive Jean Pierre Vernant: La tragedia è stata, nell’accezione più forte del termine, un’invenzione[4]. La creazione di una storia nuova. Per la prima volta, infatti, tramite di essa, l’artista era libero dalla necessità di raccontare le gesta di eroi realmente esistiti, di trasmettere l’epopea. E poteva farlo anche mettendo in scena conflitti interiori. Dubbi, riflessioni, che, oltre a rileggere le antiche gesta alla luce di contesti più attuali, dove magari i vari personaggi potevano anche iniziare a “dire la propria”, riuscivano, di conseguenza, a influenzare anche il vissuto stesso del pubblico. Impossibilitato, a quel punto, a restare impassibile spettatore dinnanzi allo svolgersi della scena. E invitato, di conseguenza, a parteciparvi. Come se lui stesso, in prima persona, stesse vivendo le vicende narrate. Da un punto di vista o dall’altro.
Il pezzo che viene messo sulla scena non vuole essere solo guardato con imparzialità, vuole costringere alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo stesso dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà, via via che gli attori si succedono e che l’intreccio si complica, che…è l’inconscio che si rivolge a lui e fa sì che queste immagini di fantasia gli appaiano davanti. Si sente perciò costretto o viene incoraggiato a prendere parte alla recita[5].
La maschera democratica:
Come ricorda Ginette Paris, ciò ebbe un risvolto del tutto interessante. Di fatti, ascoltando gli attori dialogare fra di loro e con se stessi e constatando che osavano per la prima volta decidere il proprio destino personale, la coscienza omerica si è evoluta verso l’io moderno.[6]
L’introduzione della tragedia, insomma, ha permesso lo sviluppo di una coscienza riflessiva.
E ciò anche grazie all’uso e all’introduzione della maschera che, rendendo anonimo il volto dell’attore, ha reso democratiche le emozioni e le riflessioni del personaggio. Permettendone una diffusione sul pubblico, che poteva così identificarsi con lui e, attraverso la sua vicenda, imparare a (ri)conoscere i propri vissuti.
Dioniso e la tragedia:
Fortunatamente, tutto ciò non è legato solo alla tragedia e ai vissuti tragici.
La tendenza a ridurre Dioniso alla sofferenza è, infatti, un effetto della nostra mentalità eroica, come spiega Ginetta Paris. Una tendenza che tende a “etichettare” il dio sostanzialmente come vittima delle proprie emozioni esaltate. E a estirpare ogni tensione proveniente dall’opposizione[7].
Per comprendere questa divinità dobbiamo, allora, lasciare in disparte la mentalità eroica smettendo di analizzare le contraddizioni in quanto tali. E cominciando a vedere ogni singolo, differente aspetto di noi, semplicemente come una parte di noi. Una tra tante. Esattamente come accade a teatro. E una parte, dunque, che necessita di salire sulla scena, esattamente come quella dell’eroe, per portare avanti il proprio messaggio. Di fatti:
Il gesto dionisiaco non consiste nel prendere la distanza in maniera analitica
e assumere eroicamente il controllo della situazione, ma nel balzare sulla scena e incominciare a dire. [8].
Dioniso e psiche:
Non sarà un caso, allora, che Dioniso si presenta come dio smembrato. Quasi a rimarcare l’essenza stessa della psiche che, pur sembrando una e unitaria (come una compagnia teatrale) è tuttavia composta da miriadi di differenti immaginari (attori e personaggi), ciascuno con un suo scopo e un suo preciso intento individuativo.
Si tratta di un vero e proprio processo di iniziazione all’essere psichico, che dall’idea di unitarietà, costringe l’individuo a fare i conti con i molteplici aspetti di sé, molto spesso contraddittori, ambigui e opposti l’uno all’altro. Tutti aspetti nei confronti dei quali non possiamo porci da eroi, assumendo il solo punto di vista del protagonista. Ma, come spettatori, provando piuttosto a stabilire una relazione con ciascuno di loro. Empatizzando e lasciandosi commuovere (cioè muovere verso) ogni singolo aspetto rappresentato sul palcoscenico psichico.
Così come sul palcoscenico dentro di noi.
Assumere i vari punti di vista:
Sarà così che allora, la trama della storia raccontata, cambierà e si arricchirà di vari punti di vista. Ciascuno dei quali potrà a sua volta rinarrarla sulla base di quello che è stato il suo contributo nella storia globale. Facciamo un esempio. Proviamo a immaginare una qualsiasi storia, prima dal punto di vista (e da dietro la maschera) dell’eroe. Poi dal punto di vista (e da dietro la maschera) dell’antagonista. E poi, ancora, quello dell’aiutante. Ogni singolo personaggio, offrirà uno spaccato unico e irripetibile che non cancellerà la coerenza dei fatti, ma ci consentirà di leggerli da altre prospettive. Introducendo una trasformazione. Esattamente come accade, ad esempio, a Stanly Ipkiss che, dopo aver conosciuto il personaggio potenziato ed espresso dalla maschera, comprende e realizza un nuovo modo per essere se stesso. Più estroverso e sciolto.
Dioniso in terapia:
Ecco dunque come l’ingresso all’interno dell’opera drammatica e il procedimento alla riscrittura di una trama, grazie all’identificazione e al riconoscimento dei vari personaggi sullo scenario teatrale, crea effetti sul pubblico e su chi osserva.
La seduzione della maschera diventa così terapeutica. Consentendo di prestare ascolto a qualunque personaggio balzi sulla scena per declamare la propria battuta. E mostrarsi, finalmente, a un pubblico in grado di riconoscerlo e accoglierlo senza pregiudizi. Uscendo allo scoperto e rivelando, finalmente, ciò che, forse, troppo a lungo era rimasto, informe e celato, dietro le quinte.
Il bambino che si maschera da re, il principe che si trucca da pezzente, il fabbro che si diverte a indossare vestiti da donna e la filatrice a travestirsi da soldato, il timido che diventa audace dietro a una maschera, il gobbo che ruggisce nella testa di tigre in cui si è infilato, obbediscono per un giorno, per un’ora, a Dioniso, e così si liberano di desideri segreti, di rimpianti sepolti.[9]
Conclusioni:
Divertiamoci, dunque, a indossare una maschera.
A indossarne quante più ne riteniamo opportune.
E osserviamoci, mentre lo facciamo, perché queste diano voce, corpo e forza, a qualunque immaginario, insito dentro di noi, abbia la necessità di emergere e trasformarsi.
Qualunque larva[10] voglia compiere la propria metamorfosi. E, smessi, finalmente, i panni del timido bruco, dietro le quinte, possa manifestarsi e apparire al mondo come la bella farfalla che è sempre stata.
Dott.ssa Michela Bianconi, Dott.ssa Valentina Marra e Dott.ssa Angela Paris
Bibliografia:
[1] Enigmi da sciogliersi nelle conversazioni per divertire le dame, raccolti da Pietro Roussel, Napoli, 1836, pag. 17, enigma 41
[2] Dio dell’inganno della mitologia norrena. Dotato di grande astuzia e capacità inventive, è spesso assimilato al fuoco, al caos e al tradimento. È ambiguo ed estremamente intelligente e sa essere utile sia agli dèi che agli uomini. Dispettoso e giocarellone, ama fare scherzi, anche se questi spesso fanno arrabbiare gli altri Dèi. È quest’ultimo l’aspetto del dio che Stanley Ipkiss incarna.
[3] Otto, W. (1959): Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion, Hamburg 1959, poi Frankfurt am Main 1993. Trad. It.: Theophania. Lo spirito della religione greca antica, Il melangolo, Genova 1996, pag. 130.
[4] Vernant J.P., 1991, Il dio della funzione tragica, Einaudi, Torino, 1991, p.4-5.
[5] J. Hillman (1983), Le storie che curano. Freud, Jung e Adler, tratto da M. Bianconi e A. Paris (2020): Viaggio nella Terra di Mezzo: andata e ritorno nel mondo degli immaginari psichici, dispensa universitaria, pag. 18.
[6] Paris G., 2005, Hermes e Dioniso, Moretti e Vitali, Bergamo, 2005, p.153.
[7] Cfr., Ibidem, p.154.
[8] Ibidem, p.154.
[9] Druon M., 1963, Le mémories de Zeus, Grasset, Paris, 1963.
[10] La larva è lo stadio immaturo che, nello sviluppo post-embrionale di alcuni animali, sguscia dall’uovo presentando caratteristiche morfologiche, fisiologiche ed ecologiche per lo più diverse da quelle che caratterizzano l’adulto, e che sono raggiunte attraverso una serie di più o meno profondi cambiamenti e stadî larvali successivi che nel loro complesso costituiscono la metamorfosi. È detta “maschera dell’insetto” perché nasconde dentro di sé la vera essenza dell’animale adulto (v. bruco rispetto a farfalla).