Di madre ce n’è una sola…
Al termine del nostro articolo Disturbi alimentari: rapportarsi con il mondo, abbiamo iniziato a introdurre il legame che intercorre tra questi e l’immaginario del materno, leggendo i disagi e i sintomi legati a questo particolare spettro psicologico come difficoltà a confrontarsi con il mondo. E leggendo la madre, soprattutto nelle prime fasi della nostra vita, proprio come primo tramite del nostro rapporto con esso. Oggi, in questo articolo rivolto in particolar modo a specialisti, professionisti e appassionati del settore, cercheremo di fare un leggero passo indietro e spiegare questo collegamento in modo più approfondito.
Ma prima, ripartiamo proprio dal mondo.
Cosmogonie: il racconto di una nascita psicologica.
E nacque dunque il caos primissimo.
(Esiodo _ Teogonia)
Come sicuramente molti sapranno, stando a quanto affermano i miti creazionistici, il mondo nacque dal Caos, principio primo dell’esistenza in cui è contemporaneamente presente il tutto e il nulla. Si tratta di descrizioni (piuttosto varie e diversificate da loro) che altro non sono, però, che prodotti di un’immaginazione primitiva su se stessa. Racconti, cioè, nati per spiegare aspetti psichici altrimenti oscuri. Come ad esempio (nel caso delle cosmogonie) quelli inerenti la nascita psicologica dell’individuo.
Nel bambino, infatti, così come nell’umanità, troviamo a livello iniziale uno stato di caos, di energia psichica indifferenziata, da cui lentamente emerge la coscienza. Quasi come una piccola isola dal mare.
FAME: libido iniziatrice di una coscienza?
Un’emersione, questa, che, per certi versi, potremmo ben tributare alla FAME. Prima forma di energia psichica in grado di attivare due immagini: il Soggetto (cioè colui che ha fame e deve essere nutrito) e l’Oggetto (colui che nutre). E che, pertanto, si presenta sempre in forma di relazione, poiché soggetto e oggetto tendono reciprocamente a reintegrarsi in uno.
Proiecto…
Sullo sfondo psicologico di questo meraviglioso meccanismo, fondamentale alla sopravvivenza, è possibile ritrovare quello tipico della proiezione. Per cui il soggetto è portato a “creare” un oggetto (l’Altro-da-sé), quasi come contenitore di un aspetto psichico scisso e non altrimenti conosciuto. E a subirne l’effetto, che lo ami o lo odi, finché non si ricongiungerà ad esso. La psiche, infatti, pur essendo estremamente ricca e multisfaccettata, non può fare a meno di parti di sé. E così, tramite l’oggetto, finisce con l’istigare una sorta di “fame di reintegrazione”. Rimandando continuamente alla necessità di re-impossessarsi e di ri-appropriarsi del contenuto che è stato inizialmente rifiutato, proprio attraverso un “desiderio del contenitore”. Una “riappropriazione debita” che può, poi, avvenire in vari modi. Attraverso l’atto del divorare, ad esempio, come nei casi che stiamo prendendo in esame, oppure attraverso una coniunctio sessuale.
…ergo sum?
Fatto sta che, alla fine, tutto ciò finisce con l’attribuire all’Altro (come oggetto) un potere imprescindibile: quello cioè di donare identità, indicandolo quasi come lo specchio nel quale guardare per conoscere il proprio vero volto, come scrive Sandor Marai ne La recita di Bolzano. Per cui diventa legittimo, alla fine, chiedersi: chi è, a questo punto, l’Altro? Quale altro occorre cercare per conoscere realmente se stessi?
La risposta più semplice, però, talvolta, non è la più immediata.
L’Altro, infatti, è allo stesso tempo il contenitore di parti sconosciute di noi, e qualcosa di assolutamente “non-noi”. Il termine “altro” deriva, infatti, da alius che significa, per l’appunto diverso. L’Altro è tutto ciò che non siamo noi. Può, dunque, essere qualsiasi cosa. E, siccome qualsiasi cosa può essere oggetto di una proiezione (persone, animali, cose…), allora, in questa sede, diventa possibile definire l’altro come il mondo.
Riprendiamo, allora, la citazione di Robert Nozick, da cui eravamo partite l’altra volta, per affrontare questo discorso, e proviamo a fare quell’ulteriore salto che ci spinge a collegare i disturbi alimentari al materno.
Dal mondo alla madre…
Scrive Nozick:
“il mangiare è un rapporto di intimità. Mettiamo dentro di noi pezzi della realtà esterna; ingoiandoli li mandiamo ancora più dentro, dove vengono incorporati nella nostra materia, nella nostra carne e nel nostro sangue. È straordinario come noi trasformiamo alcune parti della realtà esterna nella nostra stessa sostanza. Quando mangiamo la distanza tra noi e il mondo si riduce al minimo. Il mondo entra in noi; diventa noi. Noi siamo fatti di pezzi di mondo”.
Abbiamo tutti presente come funzionano i primi avvicinamenti al mondo dei bambini? Tutto passa per la bocca. Per il toccare, l’assaggiare, il rompere, lo sperimentare. Il mondo, agli occhi di tutti noi, si presenta (almeno) inizialmente come qualcosa da scoprire. Da spezzare, per cogliere ciò che cela al proprio interno (le nostre proiezioni) e da osservare per carpirne il funzionamento. O per lasciarsi commuovere o meravigliare dalle sue ricchezze inestimabili.
Ebbene tutti questi scambi, di qualsiasi natura essi siano, soprattutto agli albori della nostra vita, avvengono sempre tramite un intermediario. L’intermediario che nutre e introduce. E che, allo stesso tempo protegge da insidie e pericoli. Un intermediario con cui siamo collegati da un legame simbiotico. E dal quale nasciamo, così come l’io nasce ed emerge dal caos dell’uroboros.
La mamma.
La madre come mondo:
Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Ogni madre è l’intero mondo, per il suo bambino nel concreto, così come in quasi ogni aspetto mitologico. Difficilmente, infatti, si ritrovano divinità rappresentative della terra di sesso maschile (tra le eccezioni, in questo caso, è possibile nominare il dio Geb della mitologia egizia). Parliamo sempre di Madre Terra. O Madre Natura.
Proviamo a pensare che, già solo restringendo la ricerca alle divinità greche, possiamo individuare ben tre grandi dee madri, collegate al mondo e alla natura.
Madre Gea:
La prima da nominare (se non altro in termini cronologici) è Gea (o Gaia), madre e sposa di Urano, il cielo, e progenitrice di divinità, esseri che simboleggiano elementi naturali e mostruosità.
Gea rappresenterebbe i riti e le leggi che garantiscono la fertilità, una sorta di principio regolatore materno, che rende possibile la fertilità materiale e ne costituisce il terreno spirituale[1].
Madre Rea:
Figlia di Gea e altra dea connessa alla terra e alla natura è Rea, sorella e moglie di Crono (il tempo), madre della terza generazione di dèi, quelli che sconosciamo meglio:
- Estia, Demetra ed Era;
- Ade, Poseidone e Zeus.
Madre Demetra:
Infine, ultima ma non meno importante, Demetra (=Madre Orzo). La dea delle messi, che Hillman ci presenta come una pianura verde, orizzontale, con tutte le sue attività preposte alla crescita[2]. Questa terra è una terra intesa in senso materiale, letteralistico. Come sottolinea Jean Bolen (1991[3]) essa si rappresenta come istinto materno che si realizza nella gravidanza o nel dare agli altri nutrimento fisico, psicologico o spirituale.
Il suo mito s’intreccia, inevitabilmente, con quello di altre divinità, ma soprattutto con Kore, sua figlia che, nel suo intenso e simbiotico legame con la madre, incarna proprio l’immagine della giovane che non cresce. La ragazza persa nel materialismo, che non conosce le proprie potenzialità e profondità e, forse per eccesso di protezione, in qualche modo a sua volta impossibilitata (o non desiderosa?) a conoscerle.
Avviamoci alle conclusioni:
Ci occuperemo in un prossimo articolo di approfondire il rapporto di Kore e Demetra. Per ora, ciò che ci preme sottolineare, ancora una volta, è il valore fondamentale che la psicologia archetipica offre nella lettura di disturbi come quelli alimentari.
Abbiamo visto all’inizio dell’articolo che la coscienza di ciascuno di noi nasce dal caos. Quell’uroboros indifferenziato nel quale sono contenuti tutti gli opposti. Veniamo al mondo in seno a esso, nutriti e protetti da esso, al punto da non riuscire a definire dei confini. In totale simbiosi.
La lettura archetipica delle principali teorie psicologiche sul rapporto con la madre:
Il rapporto illustrato col materno, come mondo e matrice della nostra personalità, rispecchia molto le teorie classiche che imputano l’origine di un disagio o di un disturbo psichico al rapporto concreto che si può costruire con nostra madre. Come sovente si vede illustrato nel caso di Disturbi Alimentari come l’Anoressia.
Eppure a noi non basta soffermarci a questa lettura.
Il metodo analitico-archetipico:
In psicologia archetipica l’obiettivo non è trovare la causa di un sintomo, perché, come sappiamo, trovare la causa e consapevolizzare il problema non ci dà necessariamente un contributo per risolverlo Visto che, anche sapendo cosa ce lo innesca, continueremmo comunque a mettere in atto quel determinato comportamento, perché non ne avremmo una visione in trasparenza, che riconduce direttamente alla profondità e al senso e al significato che per la nostra psiche il sintomo stesso ha. Ricordiamo, allora, com’è ben noto ai nostri lettori, che la psicologia analitico-archetipica possiede, dunque, come peculiarità (che la distingue dalle altre psicologie, comprese quelle del profondo) proprio la ricerca dello scopo. È grazie a questa ricerca, infatti, che riusciamo a comprendere, a un livello di profondità sempre più crescente, l’esigenza che il comportamento o sintomo sta veicolando. Aprendo, finalmente, di conseguenza, le porte alla possibilità di apportare un cambiamento reale, nel momento in cui questa verità profonda potrà essere compresa e soddisfatta.
La pratica clinica:
Da clinici, vediamo continuamente nei nostri pazienti illusioni di cambiamento, talvolta riferite anche con grande entusiasmo e sincera convinzione che questa volta, davvero, qualcosa sia diverso e andrà diversamente. E, invece, costantemente, siamo chiamati a disilluderci (insieme al paziente), riconoscendo, dopo poco, gli stessi copioni di nuovo in atto. E questo almeno finché non verrà riconosciuto il vero valore interno e il vero scopo che portava al comportamento nella sua più profonda e intima accezione.
Mi nutro di te, mi nutro di me:
Nel caso dell’anoressia, il rifiuto del cibo (e le conseguenti restrizioni) inducono a ipotizzare un rifiuto di re-integrazione di parti proiettate. E un conseguente rifiuto di qualunque oggetto potrebbe veicolarle. Spingendoci a chiedere: “Di che cosa non vuoi nutrirti? Quale parte di te?”. E portandoci a riflettere sul rifiuto dell’oggetto (il cibo), come nascente da una confusione proprio con il materialismo. Ciò che altrove abbiamo già definito letteralizzazione.
In altre parole, c’è un evitamento del contenitore, derivante da un rifiuto del contenuto. Contenuto che, già di per sé, non può esser visto, perché non si riesce a vedere oltre il concretismo della materia, la pianura verde, orizzontale, di Demetra (per dirla come Hillman).
Sganciarsi dalla madre, recuperare la dimensione psichica:
Il lavoro da svolgere in questo caso, spinge verso la ricerca di una dimensione in profondità. Attuando quasi lo stesso processo che attua il bambino quando rompe il giocattolo (l’oggetto/mondo) per cercare di scoprirne il funzionamento interno. E trasgredendo così alla regola della madre di preservare ciò che si ha e si possiede. Mantenendo lo status quo delle cose.
Fame di psiche:
La fame che non si estingue dell’anoressica, è una fame psichica. Una fame cioè della psiche di se stessa. E solo recuperandone il significato e il senso interno, sarà possibile spezzare la circolarità coattiva del sintomo, restituendo all’anima la propria capacità creativa e la propria possibilità di trasformazione.
Vi rinviamo a un prossimo articolo per un ulteriore approfondimento e al testo Prospettive cliniche nella dipendenza e nella tossicodipendenza. Simboli e immaginari, a cura di Angela Paris, ed edito da Porto Franco Editore.
Buona lettura!
[1] Hillman, J. (1979): Il Sogno e il Mondo Infero, 2003, Adelphi Edizioni spa, Milano. Seconda edizione: 2006.
[2] Ibidem.
[3] Bolen J. (1991) Le dee dentro la donna, Astrolabio, Milano p.197.
Dott.ssa Michela Bianconi e Dott.ssa Angela Paris