Il Grinch odiava il Natale e tutte le feste natalizie. Non chiedete perché, non abbiamo altre notizie. Era forse perché le sue scarpe gli eran strette ai piedi? O la testa non era per caso ben avvitata? Forse un motivo c’è per una mente tanto malata. Vediamo un po’. Il suo cuore a quanto pare era di due taglie più piccolo! Ma qualunque sia la ragione, il cuore, le scarpe o il crapone, lui la vigilia di Natale, tutte le vigilie di Natale, se ne stava lì, ricolmo di odio per i Chi che abitavano la città di Chinonsò. Dall’alto della sua caverna, guardando le finestre illuminate, si rodeva il cuore perché tutte le case nella notte di Natale venivano addobbate.
(Dr. Seuss)
Il Grinch che odiava il Natale:
Presso i Nonsochì, di Chinonsò, viveva il Grinch che il Natale rubò.
Perché lo fece, però?
Ci siamo fatte trascinare dal particolare stile del Dr. Seuss, prese e catturate da una storia ormai già troppo conosciuta e diffusa. Chi di noi, infatti, non ha mai visto il Grinch? O non ha mai definito nessuno “Grinch”?
Grinch, infatti, sono tutti coloro che odiano il Natale. Tutti coloro che non sopportano la corsa ai regali, le visite ai parenti, le canzoncine smielate. Insomma, gli insofferenti alle feste, che quest’anno, con le attuali norme di prevenzione antivirus, forse, un po’ si sentono soddisfatti…
Grinch, come Marco, che in uno sfogo letterario, ben condensa tutte le caratteristiche del vero, verde, “uomo con grande spirito natalizio”…
La lettera di Marco: odio per i regali
E così: è arrivato il periodo di Natale. Che palle, proprio non posso pensarci. Gli addobbi natalizi, i sorrisetti falsi, quelle cavolo di musichine stupide sparate a mille per strada. Sapete che vi dico? Un po’ ci speravo quest’anno, con le restrizioni e tutto il resto, ho quasi pregato (che per me è già tutto dire) perché ce lo risparmiassero. Puff! Sparito nei meandri dei DPCM vari. Senza luminarie, senza canzoni, senza quell’ipocrita necessità della “corsa ai regali”. Che ti corri poi? Solo per comprare un’altra ridicola cravatta che si deve fingere piaccia, perché si deve fingere sotto Natale. Tutto ci deve piacere sotto Natale. Oppure l’ennesimo kit con il bagnoschiuma e il profumo dopobarba.
No. Io lo odio questo periodo. Lo odio con tutto me stesso.
La lettera di Marco: odio per il contatto con l’altro
Esci, vai a fare la spesa, ti servono quattro cose, quattro…e ti trovi davanti file e file di idioti che ammorbano le casse con scatole e scatoloni pieni di fili e addobbi colorati, dolci, panettoni, torroni, cotechini imbalsamati e pacchi e pacchi di lenticchie. Quelli che portano i figli al reparto giocattoli per scegliere cosa regalerà loro Babbo Natale, che puntualmente stanno lì a tirarla sul prezzo: “perché Babbo Natale, dovendo fare regali a tutti i bambini del mondo, non può permettersi di spendere tanto”. E poi quelli che quando t’incontrano, alla fine ti dicono: “Oh, se non ci vediamo prima, Buon Natale”. Già da fine novembre!
Le cene aziendali, il tour dei parenti, i piagnistei dei vecchi che, ogni anno, sempre in questo periodo, fanno la conta dei morti, dei feriti e degli ammalati.
E poi, agli amici? Che fai, non prendi niente?
Uno spreco di soldi il Natale. Uno spreco di denaro e di tempo.
La lettera di Marco: odio per gli auguri
Per non parlare, infine, di loro: i maledetti messaggini d’auguri. Quelli che si mandano per praticità a tutta la rubrica, a prescindere. “Tanti auguri a te e famiglia!”. E quelli che si giocano d’anticipo e si mandano il 21 sera. Fino all’apoteosi del ridicolo con quei video del cavolo, con i Babbi Natali che cantano e le renne che fanno la break dance, utili sono a intasare la memoria interna del telefono cellulare e piacevoli tanto quanto un calcio là dove non batte il sole.
La lettera di Marco: l’aggressività
Guardate: certe volte penso che vorrei addormentarmi a fine novembre (se non già prima, intorno alla metà) e svegliarmi che siamo già a gennaio inoltrato, sapendo che le incombenze, le rimostranze, i vari sdolcinamenti, sono già superati, forse portati a termine da un qualche automa che mi somiglia. Un automa che, almeno, non si senta stupido (tanto quanto mi sento io) di fronte all’ennesimo sorrisetto di falsa accondiscendenza natalizia. Ecco: almeno qui, quest’anno, ho una piccola soddisfazione personale. Il mio personale regalo di Natale per me stesso: la possibilità di mandare a quel paese tutti gli invasati delle feste, sottovoce e protetto dalla mascherina che, oltre a rendere la vita difficile al contagio, dà sfogo alla mia mite e graziosa aggressività pervasiva.
Quella che risponde beatamente al ritmo di Jingle Bells.
No, decisamente: io non ce la posso fare.
La lettera di Marco: a Natale non c’è Rambo che tenga
Tutta questa forzatura. Tutto questo correre correre…questo “vogliamo ci bene a prescindere”, non fanno per me. IO SONO ALLERGICO ALLE FESTE. Mi viene l’orticaria. E non sto scherzando. È davvero così. E mi gratto, mi gratto, mi gratto dappertutto, perché questo spirito dolciastro e appiccicoso proprio non mi va di tenermelo addosso.
Io odio tutto del Natale: i cenoni, le riunioni di famiglia, ho smesso perfino di festeggiare il mio compleanno per non avere troppe rotture di scatole con la gente intorno, figuriamoci se ho voglia di incontrarla per una festa “comandata”. Come se fosse scritto da qualche parte, poi, che si debba stare insieme per forza a Natale, ché a Natale nessuno va lasciato solo…ma chi ve lo dice?
Persino i film in tv. A Natale non c’è Rambo che tenga.
Solo il mio resiste e vorrebbe urlare e fare a pezzi tutto.
La lettera di Marco: Nome Omen
Una lettera dal tono aggressivo, che trasuda rabbia, quasi, da ogni singola parola.
Del resto Marco, da Marte (come il famoso dio della guerra), è già in sé e per sé un nome che, chiunque si appassioni di Psicologia Archetipica, non può ignorare. Giacché nel nome sta, in qualche modo, come sostenevano gli stessi Romani, il destino di chi lo porta. E il nostro amico, nel suo sfogo, ben incarna lo spirito del detto nome omen.
Ma proviamo ad analizzare la sua lettera.
Tutti dobbiamo fare i conti con la rabbia:
Partiamo da un presupposto: ognuno di noi, prima o poi, si trova a dover fare i conti con la propria rabbia. Un’emozione che da sempre conosciamo e che spesso addirittura temiamo, poiché richiama qualcosa di primordiale. Un senso animalesco e quasi istintuale che ben sintetizziamo nel dire “andare in bestia”. Perché la rabbia è così: ci spoglia di quel tenue velo dorato di perbenismo e di altruistica umanità (che, poi, è un po’ lo stesso verso cui si scaglia Marco nella sua invettiva contro il Natale) e ci spinge verso quella reazione che negli animali sappiamo distinguere in “attacco o fuga”. Una reazione naturale, sì, derivata primariamente dagli ormoni che la rabbia stessa libera nel nostro organismo, e che proprio nella sua naturalità e nella sua bestialità, ci sembra meno umana. Perché la rabbia ci schiaccia e ci travolge. Ci spinge ad uscire da noi stessi. E come Marte, che abbiamo già citato, ci spinge in una guerra di fronte alla quale ci sentiamo impotenti.
La direzione della rabbia:
Solitamente, allora, tendiamo a rivolgere questa energia verso l’esterno, cercando un capro espiatorio che incarni l’origine di tutti i nostri mali. Esattamente come accade a Marco, la cui rabbia si scaglia verso uno dei riti più importanti dell’anno: il Natale.
Ma perché proprio il Natale?
Proviamo a dare una spiegazione partendo dalle origini di questa festività, un po’ come già stato fatto nell’ultimo articolo, disponibile cliccando qui.
I Saturnali e il Natale:
In particolare, abbiamo pensato, in questa sede, di focalizzarci sull’antica tradizione romana dei Saturnali, che si celebravano generalmente dal 17 al 23 dicembre in onore del dio Saturno, il Titano figlio di Urano e Gea. Il mito ci presenta questa divinità come colui che, armato di un falcetto, fornitogli dalla stessa madre, evirò a sangue freddo il padre, permettendo così ai suoi fratelli di mostrarsi al mondo interrompendo l’unione fra cielo e terra. Una divinità, dunque, che rimarca una separazione netta. E che, proprio grazie ad essa, rende possibile la vita, quasi in una sorta di parto cesareo, dilaniando l’uroboros ancestrale nel quale tutto è confuso e nel quale non esistono differenziazioni.
Uscire dalla confusione. L’avvento di Gennaio come termine dei Saturnali:
Un aspetto, questo, che i Saturnali ricalcavano alla lettera, come testimonia lo stesso Mircea Eliade, descrivendoli alla stregua “intermezzi carnascialeschi,…rovesciamento dell’ordine normale, orgia, confusione delle forme” (Trattato di storia delle religioni, p. 411, 412.). Durante le feste, infatti, i ruoli convenzionali della società romana erano totalmente invertiti. Gli schiavi considerati per pochi giorni padroni e le serve lodate come gran signore. In questo periodo non vi erano differenze tra luce e buio, tutto era concesso durante i festeggiamenti, i tribunali sospendevano i giudizi, ogni forma di sofferenza cessava, in un luogo non-luogo, anche il tempo era sospeso. Almeno fino all’arrivo di Ianuarius, gennaio: il mese dell’inizio, che sanciva il risbocciare della vita.
Del resto il Natale, dal latino natus-alem, non è forse il giorno della nascita? E Saturno non è forse indicato, in astrologia, come un dio del parto? Il dio della fuoriuscita dal canale uterino, buio e stretto, e della venuta alla luce.
Sol Invictus: la sconfitta dell’Uroboros.
Eh, già. Perché dopo il buio, sorge sempre la luce. Sarà così allora che il mito Cristiano della nascita di Cristo, come portatore di luce, a lungo tornare verso le sue origini, si perde, a sua volta nella confusione con le celebrazioni del dio del Sole Invitto. Colui che riuniva in sé i vari dei solari: Helios, Mitra e il siriano El–Gabal. E che proprio perché Invitto richiamava la vittoria sull’oscurità, sulla confusione, sulle tenebre dense e appiccicose dell’Uroboros iniziale.
Risulta semplice allora comprendere come il Natale diventi una mescolanza di oscurità e luce, pesantezza e leggerezza, freddezza e calore. Da un lato la plumbea castrazione, il gelido taglio, la separazione, dall’altro l’apertura gioiosa, la gaia rigenerazione, la nascita.
La contrapposizione giusta che nel 1957 il Dr. Seuss rese attraverso la creazioni dei buffi esseri dal nasino all’insù, chiamati Nonsochì di Chinonsò, e del Grinch, il loro Saturno corrucciato, che ritirato e separato, vive nel caos e odia il Natale.
Il Grinch che odiava il Natale:
Il Grinch odiava il Natale e tutte le feste natalizie. Non chiedete perché, non abbiamo altre notizie. Era forse perché le sue scarpe gli eran strette ai piedi? O la testa non era per caso ben avvitata? Forse un motivo c’è per una mente tanto malata. Vediamo un po’. Il suo cuore a quanto pare era di due taglie più piccolo! Ma qualunque sia la ragione, il cuore, le scarpe o il crapone, lui la vigilia di Natale, tutte le vigilie di Natale, se ne stava lì, ricolmo di odio per i Chi che abitavano la città di Chinonsò. Dall’alto della sua caverna, guardando le finestre illuminate, si rodeva il cuore perché tutte le case nella notte di Natale venivano addobbate…
I Nonsochì di Chinonsò:
In quel fiocco di neve che ti ha appena sfiorato, c’è tutto un mondo che ti verrà svelato. Così il Dr. Seuss c’introduce nel piccolo mondo perfetto (concluso, portato a termine e compiuto in se stesso) all’interno del quale si cela la città di Chinonsò, con i suoi abitanti: i Nonsochì.
Se chiedi ai Nonsochì di certo ti diranno:
Natale a Chinonsò si aspetta tutto l’anno,
la finestra è gremita, la luce è colorata
e la banda marcia allegra in divisa da parata…
Per i Nonsochì il Natale è senza dubbio perfetto.
Sì, tutti amano il Natale a Chinonsò,
ma il Grinch che abita su al Nord…lui no…
Ma chi è il Grinch?
Chi è il Grinch che odiava il Natale?
La piccola Cindy Chi-Lou lo chiede a suo padre, mentre questi, affaccendato alla posta, sistema dei pacchi e continua a lavorare (per vedere la scena, clicca qui).
“Il Grinch non è un Chi”, risponde l’uomo.
“Il Grinch è un Che, un Che-Strano che non ama il Natale e non riceve biglietti d’auguri”.
Ma perché egli odi questa festa e come ciò sia successo, Cindy Chi-Lou non riusce, però, a saperlo. Il dilemma nella testa, però, batte come una tempesta…e così la piccola inizia le sue indagini e, mentre i Chinonsò, indaffarati, comprano doni, riflette su quale sia il vero valore del Natale: i regali o la condivisione?
Colui il cui dono non è accettato, diventa un Grinch che grugnisce spietato…
Poi, un giorno, scopre la verità. Trovando la vecchina che lo aveva adottato, agli occhi di Cindy Chi-Lou il triste destino del Grinch, finalmente è svelato. E la bimba viene a sapere, di quell’anno, per Natale, in cui il Grinch, ancora piccolino, aveva invano tentato di donare a Martha May, il suo affetto più carino. Cresciuto ma mai riconosciuto dai Nonsochì come uno di essi, il giovane Grinch era stato infatti, in quell’occasione, deriso per il suo aspetto. E pertanto, frustrato, umiliato da tutti, dopo aver distrutto ogni decorazione, si era infine ritirato sul Monte Boh, in solitudine, dove il suo rancore era cresciuto, covato, nei confronti della festa che aveva causato tanto dolore: il Natale.
Quella festa dolciastra e appiccicosa (come la definirebbe Marco) che lo aveva costretto a fare qualcosa che, forse, diversamente, non avrebbe fatto: esporsi. Perché il Natale è il periodo dell’amore. Natale è il periodo delle buone intenzioni. È il periodo degli affetti. E il piccolo Grinch, con il suo regalo, avrebbe voluto condividere il proprio con Martha May.
Ma, come tutti noi sappiamo, chi per un’esperienza chi per l’altra, dichiararsi, in qualche modo, in quanto rendere chiaro a se stessi e agli altri, significa, per l’appunto, proprio esporsi. E per il Grinch esporsi aveva significato (sempre significherà) rendersi conto della propria individualità. Del proprio personale modo di essere se stesso.
La rabbia come sé-parazione:
La rabbia aumenta, allora, nel Grinch, come mezzo di separazione dai Nonsochì. Una difesa strenua e urticante, che lo costringe a mettere uno spazio concreto, oltre che figurato, tra sé e “loro”. E così, a mano a mano che gli abitanti di Chinonsò si arricchiscono di strenne natalizie, luci colorate e dolcetti, il verde Grinch si circonda di immondizia, oggetti rotti, cipolle e buio. Tutto ciò che, in qualche modo, gli rimanda quell’immagine di se stesso, come di uno scarto, di qualcosa (piuttosto che qualcuno) che non può partecipare al collettivo. Il brutto anatroccolo escluso dal giro dei paperotti.
Un amico, però, gli si fa accanto: il cagnolino Max, unico animale concreto, che compare nell’intera storia. Max il massimo, l’estremo essere vivente tollerabile dal Che-Strano che odiava il Natale. E quello che, tra un morso e l’altro, da bravo psicopompo, però, sancisce il vero, radicale punto di rottura nell’intera storia. È grazie al cane, infatti, che Cindy scopre la bontà del Grinch, quella bontà nascosta, mascherata e mal simulata, sotto strati e strati di pelo e rancore che la convince a fare qualcosa per lui.
Una strana stramontana soffiava su Chinonsò,
bastava un passo falso per cadere dal Monte Boh;
ma questa bimba aveva una missione, sapeva cosa fare
la brava Cindy Chi-Lou il Grinch andò a invitare.
Il Grinch che lo odiava, decide di rubare il Natale nel quale non più sperava…
E così il Grinch torna tra i Nonsochì di Chinonsò.
Ma, di nuovo, deluso dalle derisioni che questi gli riservano, si ritira sul Monte Boh con un piano spaventoso.
Il Grinch ghignò con suono letale
e presto cucì un costume da Babbo Natale.
Sghignazzò ridacchiò pensando al suo gran trucco grinciuto…
E, col favore della notte, il Natale scende a rubare.
Un lieto finale:
Per mille metri su per Monte Briciolaio
trascinò il carico su in cima per buttarlo nell’immondezzaio.
Ma da Chinonsò si udì qualcosa, ma non era un pianto!
Non sembrava triste, bensì un allegro canto.
Ma, sì, era proprio allegro! Tutti i chi non so i piccini e i vecchietti
cantavano allegri anche senza quei pacchetti.
Lui non l’aveva fermato il Natale: era arrivato
e il Grinch con i piedi grinciosi nel terreno ghiacciato
continuava a pensare sconcertato.
Il pensatoio scoppiava per quanto si era scervellato.
Ad un tratto cambiò tutto: un pensiero era affiorato
“può darsi che il Natale non venga da un supermercato”,
“può darsi che il natale abbia un significato più complicato”.
E cos’era successo? Beh dicono tutti a Chinonsò
che il suo cuore quel giorno di ben tre taglie aumentò.
Regali e leccornie il Grinch riportò
e proprio lui in persona il tacchino affettò.
Alla scoperta del Grinch che odiava il Natale: Verde.
Analizzando attentamente questa favola, è impossibile non pensare alle similitudini tra il Grinch che odiava il Natale del Dr. Seuss e il Grinch che odiava il Natale incarnato Marco che ci ha inviato il suo sfogo. Entrambi, infatti, odiano il Natale, non sopportano i regali, la compagnia, gli abitanti del paese, le feste, le luci…i Grinch odiano e si arrabbiano, si snervano e s’infuocano. E, come Rambo in azione, faticano a sopire l’istinto distruttivo che il Natale suscita in loro.
Quel Natale che tutti accomuna. Quel Natale che livella e sembra quasi far scomparire le differenze individuali. Il Natale che non ammette spazio per il brutto e per lo strano, che non ammette spazio per l’oscuro e lo sconosciuto, come se avesse dimenticato le sue origini fatte di luci e di ombre.
E quel Natale che, forse, ben oltre l’essere la celebrazione della nascita di una divinità, diventa emblema della nascita psicologica di ciascuno di noi.
La nascita psicologica:
Una nascita che, di certo, non è ben vista dal Grinch, che in un luogo non-luogo in cui tutto è incerto (il paese Chinonsò dove abitano i Nonsochì), ha la necessità di scoprire se stesso. Il suo essere un individuo unico e irripetibile del quale, tuttavia, e forse anche sulla scia del pregiudizio altrui, ha talmente tanta paura da nascondersi, prima di tutto, ai propri occhi.
E così la rabbia verso l’esterno (che prima costruisce una falsa immagine di collettività e di condivisione e poi la frantuma differenziando il bello e il brutto) si alimenta della rabbia verso l’interno (la propria, oscura e non accettata essenza). E il Grinch odiato e temuto dai Nonsochì, ricalca il Grinch che odia se stesso e che, da escluso e cacciato, a sua volta esclude e caccia. Purtroppo per lui, la sua nascita psicologica non è meno dolorosa di una nascita biologica.
Il Grinch finisce così col diventare ciò che fa: l’escluso che non accoglie e non accetta e che si trincera dietro alla rabbia. La rabbia, del resto, che appartiene anche al suo colore. Esattamente come Hulk, il supereroe della Marvel.
La scelta di questo colore, ovvio, non è casuale. La biologia ci insegna, infatti, che quando ci arrabbiamo, nel nostro corpo, viene prodotta una gran quantità di bile: un liquido verde secreto dal fegato, che ha due funzioni principali: favorire i processi digestivi ed eliminare i prodotti indesiderati. Qualcosa di utile, dunque, e di estremamente prezioso, che pure, se eccessivamente accumulato, provoca forti bruciori allo stomaco, l’organo deputato alla digestione.
La rabbia…digestivo naturale?
Soffermiamoci, allora, sul significato di questa parola: digerire, da dis (separare) + gerere (portare), un termine che già da un punto di vista etimologico richiama l’essenziale importanza della differenziazione. Quella stessa differenziazione di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo a proposito di Saturno e dei Saturnali: quella differenziazione che restituisce un’individualità distinta, separata dalla massa caotica. La separazione che fa nascere dall’Uroboros.
Fu Neumann, in particolare, a sottolineare questo aspetto, quando nel suo testo Storia dell’origine della Coscienza (1949), pose la nascita psicologica dell’individuo proprio a partire dal caos dell’Uroboros inconscio, dove l’inizio è contenuto insieme alla fine, e tutto appare indistinto. Qualcosa che ci richiama, e con forza, all’idea dei Nonsochì di Chinonsò, dove nessuno spicca per una personalità particolare. Nessuno, tranne il Grinch, ovviamente (e, in parte, la piccola Cindy Chi-Lou).
Il processo di individuazione:
Stiamo parlando di ciò che, in termini analitici, Jung intese come Processo di Individuazione. Una “via individuale” che anche se all’inizio può portare a percorrere sentieri molto diversi dai consueti, mai possiede, come meta finale, l’estraneazione o, peggio, la distruzione del tessuto sociale. L’individuazione, infatti, come scrisse lo stesso psichiatra svizzero: è un’unificazione con se stessi e, nel contempo, con l’umanità di cui l’uomo è parte (Opere, Vol. 16 _ pag. 118).
Qui si può domandare perché mai sia desiderabile che un uomo si individui. E’ non solo desiderabile, ma indispensabile, perché l’individuo, non differenziato dagli altri, cade in uno stato e commette azioni che lo pongono in disaccordo con se stesso. Da ogni inconscia mescolanza e indissociazione parte infatti una costrizione ad essere e ad agire così come non si è. Onde non si può né essere d’accordo in ciò né assumerne la responsabilità. Ci si sente in uno stato degradante, non libero e non etico.
(C.G. JUNG _ L’io e l’inconscio)
Il Grinch che odiava il Natale: odiava se stesso e non si accettava.
Ecco, dunque, come il Grinch diventa il Grinch che odiava il Natale.
Cresciuto come membro di una comunità, alla quale ben si adatta, si ritrova, tuttavia, additato come un diverso inconciliabile con tutto il resto, finendo col diventarlo a tutti gli effetti. Il mostro strano e disturbante di cui tutti hanno paura.
Il suo esser stato escluso, lo rende escludente.
Ma escludendo il mondo (e boicottandolo), egli finisce però con l’escludere anche se stesso e le sue stesse esigenze: perennemente svilite e annichilite attraverso l’odio.
Come l’esigenza della condivisione.
L’esigenza dello “stare insieme”.
L’esigenza di un regalo di Natale che, a tutti gli effetti, suona proprio come una possibilità di concedersi di essere se stesso: di poter nascere a se stesso e diventare finalmente se stesso. Una creatura che non è più un Nonsochì di Chinonsò, ma che ha un nome proprio e una propria identità personale.
La non conoscenza che previene il dolore:
Tutto ciò che nella storia, fin quasi alla fine, egli puntualmente preferisce evitare di conoscere. Perché conoscere, come nascere, è doloroso. E conoscere, come nascere, richiede un passaggio, spesso brusco e violento, che stringe, costringe, a tratti sembra soffocare e che, inevitabilmente ci porta a confrontarci con l’ombra e con il caos, prima ancora che con la luce, esattamente come accadeva per i Saturnali nell’antica Roma.
È così difficile guardare (e accettare) quello che c’è dentro di sé!
L’intervento di Cindy Chi-Lou:
Alla fine della storia, però, il Grinch ci riesce.
L’intervento della piccola Cindy Chi-Lou, che in lui crede e vede un Che di luminoso (no, non è un errore di battitura: appositamente abbiamo voluto mettere quel “Che” con la lettera maiuscola, per ricordare il modo in cui il Grinch era definito all’inizio del racconto), riesce a liberarlo dalla sua fortezza di solitudine e rancore.
E lo riconduce di nuovo nella comunità, dove egli finalmente può essere riaccolto.
Come a dire che, grazie al loro incontro, il Che-Strano che inizialmente era il Grinch, evolve finalmente in un Chi che sa chi è.
Proviamo a giocare con la grammatica e con il significato intrinseco delle parole, per meglio capire questo concetto.
L’evoluzione del Che-Strano in Chi:
Possiamo considerare il “Che” come un potenziale indistinto iniziale. Una ricchezza e un’essenza unica e irripetibile che ci rende ciò che siamo, ma che tuttavia inizialmente ci si presenta ignota e sconosciuta. A tal punto da far così tanta paura da costringerci a rigettarla e rimuoverla, seppellendola negli angoli più bui e nascosti della nostra psiche. La sua presenza, infatti, e la sua attivazione, possono essere intuite come potenzialmente pericolose per il mantenimento dell’armonia con ciò che è familiare e rassicurante. Ciò che tutti conoscono e vogliono, ciò che è così e così deve essere perché ce lo hanno insegnato in questo modo ed è condivisibile con gli altri in quanto accettato dalle convenzioni sociali. Ma possiamo davvero silenziare questa parte?
Se la ignoriamo, relegandola nel buio e proteggendoci con una luce accecante, possiamo davvero sfuggire alla sua influenza? Se guardiamo alla storia del Grinch, in qualche modo, forse possiamo comprendere la risposta a questa domanda. Questo personaggio, infatti, fa di tutto pur di non esser coinvolto nella vita dei Chi.
Li odia. Li squalifica. Svilisce tutto ciò che li riguarda. Fa di tutto per restarsene solo e per dar l’impressione di non voler essere avvicinato.
Eppure Cindy non demorde.
Dopo aver intuito la presenza del “Che di luminoso” dentro di lui, dopo aver intravisto, anche se per un breve tratto, e intuito la presenza della sua bontà, lo cerca e ricerca, quasi ossessionata, finché, infine, non lo costringe a prendere atto dei suoi stessi desideri. Di quella parte di sé, cioè, che lui stesso ignorava e relegava nei recessi della sua psiche.
L’incontro con l’anima non può essere evitato a lungo…
Il loro incontro, allora, può essere letto alla stessa stregua di un incontro con l’Anima, intesa così come Jung poteva intenderla: una capacità, cioè, tutta femminile di accogliere e di sentire, che nel Grinch non può che assumere l’aspetto fragile di una bambina di sei anni. E un incontro con l’anima, così come Hillman poteva intenderla: un incontro con la propria psiche profonda, grazie alla quale è possibile ricongiungersi alla collettività nel semplice riconoscimento di essere umani. Di essere dei Chi. Piuttosto che dei Nonsochì.
Grazie a Cindy e alla sua insistenza (l’anima, in fondo, desidera solo conoscere se stessa) il Grinch impara a farsi carico, una volta compiuto il suo viaggio in solitaria, di quella parte di sé cui, dopo l’episodio del dono rifiutato e le derisioni, aveva semplicemente tolto la voce. Impara a guardarla da un nuovo punto di vista, non più pericoloso (perché fonte di confronto), ma apprezzabile, indispensabile, e scopre che ridandole la voce e accogliendola, essa può di nuovo spalancare per lui le porte del suo vero essere. E della sua essenza. Realizzando così il suo compito esistenziale.
Compiere il destino: riconoscere se stessi:
E così egli compie il suo destino, così come tutti noi siamo chiamati a compiere il nostro: rinascere a se stessi come “Chi”, riconoscendo ciò che inizialmente ci sembrava solo un “Che” (e un Che-Strano) come la nostra più profonda, vera, meravigliosa e ricca essenza individuale. Diversa da quella di ogni altro e, proprio per questo, preziosa perché unica e nostra.
Conclusioni. L’incontro con il Grinch interiore:
Ora sappiamo che la rabbia, l’odio e il rifiuto, possono essere letti, nel loro significato più profondo, come un invito a rivolgere lo sguardo verso dentro. Verso tutti quegli aspetti “che-estranei” e “che-strani” che si nascondono nelle nostre profondità e che desiderano solo, in fondo, poter esser conosciute e accolte. Come il Grinch che, un tempo, odiava il Natale, ma che ora, che lo ha accolto dentro di sé ed è nato a se stesso, lo festeggia in mezzo agli altri servendo tacchino arrosto.
Siamo tutti chiamati (Marco compreso) ad accogliere il nostro personale Che-Strano, che vuol solo diventare ciò che veramente è. Soltanto entrando in contatto con le nostre oscurità, infatti, con i nostri rancori e con le nostre stranezze potremmo toccare le parti più profonde di noi, permettendo al buio e alla luce d’incontrarsi nel punto esatto che precede la nascita.
Non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. CHI GUARDA FUORI SOGNA, CHI GUARDA DENTRO SI SVEGLIA.
(C.G. JUNG)
Angela Paris, Michela Bianconi, Valentina Marra